AI Horizons è la rubrica di Artuu Magazine dedicata alle storie, ai progetti e alle visioni nate dall’incontro tra arte e Intelligenza Artificiale. Attraverso interviste e approfondimenti, esploriamo come algoritmi e creatività ridisegnano il futuro dell’estetica contemporanea.
Nel corso della mia ricerca ho conosciuto Alessandro Zannier e da subito mi sono interessata al suo lavoro. Temi come big data, interconnessione, entanglement e sostenibilità – centrali nella mia riflessione sull’arte 3.0 – emergono con forza nel suo lavoro in una sintesi originale e profondamente consapevole.
Dopo un primo incontro fugace, un veloce caffè durante una mostra, Alessandro arriva a Milano per raccontarmi la sua ricerca. Si presenta con cataloghi e CD: mi racconta il suo universo multiforme, in cui linguaggi diversi si intrecciano per costruire una narrazione complessa, coerente e profondamente attuale.
Zannier è un artista multidisciplinare che attraversa media e registri espressivi – dalla musica alla pittura, dal digitale alla scultura – per esplorare le relazioni tra sistemi, le stratificazioni della realtà, i macrocosmi. Le sue opere non si limitano a rappresentare: ci conducono in un viaggio visivo e concettuale che alterna zoom-in e zoom-out, restituendoci nuove prospettive, tra dettaglio e visione d’insieme.
Il suo mondo è fatto di pigmenti, note musicali e pixel, riflessioni sull’antropologia culturale e sulla nostra attitudine umana, che riesce a tradurre in opere d’arte e armonie. Con una voce personale, ci racconta chi siamo e, soprattutto, cosa potremmo diventare se non saremo in grado di valorizzare la nostra intelligenza naturale. Abbiamo discusso a lungo sul tema dell’intelligenza artificiale che affronta con lucidità e visione critica.
Aspetto ancora di poter assistere a un concerto di Ottodix – la sua anima musicale – intanto continuo a seguire il percorso di un artista che crea opere, costruisce narrazioni, apre dialoghi, e ci invita – progetto dopo progetto – a riflettere, con uno sguardo personale, radicalmente contemporaneo.

Sei un artista visivo affermato, un musicista conosciuto come Ottodix. In che modo queste due anime creative dialogano tra loro?
Sono due anime sviluppatesi in simbiosi. La mia è una formazione classica da artista visivo (Accademia di Belle Arti a Venezia per intenderci) e solo in seguito ho avuto una folgorazione per la musica. Dai vent’anni in poi, affermarmi con la mia musica è stata per un bel po’ un’ossessione, che mi ha anche allontanato in parte dalle arti visive.
Parlando di arte ho iniziato ben presto a realizzare serie di opere e installazioni concettuali sui temi dei miei album e ora che ho consolidato questo linguaggio ibrido: esco a cadenza triennale con vere “operazioni” coordinate, come le chiamo io. Album, mostre, spettacoli live e conferenze: tutto ruota attorno alla stessa tematica. In scena poi mi segue l’Ottodix Ensemble, con band, quartetto d’archi, visuals e animazioni su lavagna luminosa.
La tua produzione artistica spazia da tematiche legate alla scienza alle ultime tecnologie, alla sostenibilità ambientale. Trovo che il fil rouge della tua ricerca siano le interconnessioni. Ce ne vuoi parlare?
Il mondo interconnesso è il focus della mia ricerca e me ne sono reso conto negli ultimi 7-8 anni analizzando a posteriori alcuni periodi che ho attraversato, apparentemente non omogenei tra loro.
Gli intrecci, i grovigli stratificati di relazioni, sono per me affascinanti. Spiegano l’interdipendenza che regolamenta la natura, i collettivi e le società. Ho grande ammirazione per chi in medicina studia il corpo umano: vene, arterie, sistema limbico, vagale, neurale, batteri, cellule. Una cattedrale di complessità di reazioni chimico-elettriche la cui risultante, come stratagemma per far sopravvivere la colonia, è il cervello umano e l’illusione dell’”io” e della coscienza. Con questa modalità di zoom in e out, osservo ogni ambito di ricerca, esaltando la complessità. Più si involve la cultura Occidentale, meno siamo in grado di capire fenomeni complessi e interdipendenze diffuse come il climate change. Ogni oggetto, ogni corpo, ogni habitat è un microcosmo di interconnessioni in cui la superiorità di una specie sull’altra è tutta da verificare, a cominciare dalla nostra: una delle più giovani, inutilmente arrogante e destinata all’estinzione anticipata.

Con ENT hai esplorato le interconnessioni globali attraverso i big data. Qual è stata la sfida più grande nel tradurre questi dati in arte (e quale messaggio hai voluto lanciare al pubblico)?
ENT è stata l’evoluzione tradotta in arte visiva del concept album “Entanglement”(2020), un lavoro di svolta per la mia carriera. Ho preso in prestito come metafora il fenomeno della fisica quantistica per il quale due particelle unite all’origine e poi separate, in teoria interagiscono istantaneamente (non sempre) anche a milioni di km di distanza. Un fenomeno sconcertante che abbatte il concetto di spazio-tempo e avvalora quello olografico della simultaneità di ogni combinazione spazio temporale. Come in un ologramma, tutto quello che accade in un punto, ha ripercussione immediata sull’immagine completa. Un’apocalisse climatica locale riguarda tutti su scala globale.
Le installazioni gemelle della serie ENT, ospitate in due Biennali di Venezia e in sedi espositive in tutti e 6 i continenti, miravano a mettere in relazione l’Italia con il resto del mondo attraverso obelischi luminosi connessi via web. Ogni struttura riceveva dati ambientali dal proprio “obelisco remoto” e li traduceva, tramite decodifica, in immagini e filamenti, evocando un chiaro rimando alle sinapsi: interconnessioni di fenomeni che danno origine a creature digitali fluttuanti. Dal flusso numerico iniziale si assiste a una metamorfosi alchemica in suoni e immagini.
È stato un processo di rivelazione: come se si fosse smascherata la forma dello sciame umano nello spazio-tempo, restituendo un’icona dell’uomo finora inaccessibile prima dell’era dei big data. Questi sciami di filamenti li trasferisco infine su tela, restituendo a immagini digitali – altrimenti destinate a dissolversi – una forma di permanenza fisica e, in un certo senso, di immortalità. Il problema del backup del digitale è un altra delle mie ossessioni. Meglio lasciare dei “graffiti”, sempre.

Uno dei progetti che più mi ha affascinato all’interno della tua produzione artistica è “Arca”, esposto a Venezia con una mostra visiva e sonora diffusa. Ci racconti questa ‘arca di Noé’ contemporanea?
“Arca” (2022-23) è stata un’operazione dedicata al concetto di backup e di migrazione collettiva. Ho immaginato e progettato un’immensa arca spaziale a forma di tartaruga, la Chelonia Mydas, strutturata come una città sferica, con la pianta degli edifici rivolta verso il suo interno e un sole artificiale al centro. Attorno alla sfera è agganciato un gigantesco anello (debitore della fantascienza romantica delle stazioni spaziali ad anello “alla Kubrick”) in cui 6 padiglioni gestiscono le attività principali dei coloni, garantendone la sopravvivenza: ospedali e camere mortuarie, campagne e mari artificiali, scuole e biblioteca digitale della storia umana, tecnologia, area delle arti, filosofia e spiritualità e infine ricerca spaziale. I condotti che collegano i 6 padiglioni sono stati immaginati come delle “teche” di stoccaggio di sequenze di DNA di animali, piante, batteri e funghi, un po’ come l’Arca di Noah, in versione contemporanea.
Un lavoro strutturato per riflettere sul rischio apocalisse, su come si possa fare un backup di un habitat complesso come il nostro e come imbarcarlo in un’arca per poterlo “ripiantare” altrove, come un seme. La serie di opere realizzate descriveva spaccati di habitat curvi, sferici, sovrapponendo mappe territoriali, industriali, stradali, naturali e topografiche di singole aree, che via via assumono l’aspetto di un organismo, una cellula con i suoi organi, un microcosmo, un seme gigante.

Il tema della crisi ambientale è centrale nelle tue opere e ora al museo M9 di Mestre c’è in esposizione la video-installazione Escalation >< Involution. L’arte può contribuire ad una maggiore consapevolezza ambientale?
Lo considero un’evoluzione del mio percorso, che mi spinge ulteriormente verso l’interdisciplinarità all’interno di una pratica radicata nell’arte concettuale. Animare video installazioni è stata una sfida per un “senior” come me. Per fare questo mi sono appoggiato a OOM (Alex Piacentini e Nicholas Bertini), un duo di creativi designer digitali che stimo e con cui ho una visione comune filosofico-estetica e ambientale, nel mettere in scena i dati nella loro alfanumerica cruda bellezza.
L’opera video bombarda lo spettatore con dati sull’ambiente in deterioramento e sui danni al patrimonio culturale nel ’900: dal rogo nazista dei libri alle distruzioni iconoclaste dei Talebani, fino all’analfabetismo funzionale da social, al “brain rot” e ai rendimenti scolastici in picchiata. 13 proiettori e una sala di 400 metri quadri: una vera sfida, in cui mi riconosco pienamente – per le scelte estetiche, i contenuti, la regia e la musica – e che segna, di fatto, il mio primo progetto alla guida di un team. Con gente più giovane, aggiungo. Una lezione di contemporaneità che dava David Bowie a quelli della sua generazione.
Dall’acrilico al digitale, dall’installazione sui dati ambientali all’installazione web interattiva (che invito il pubblico ad esplorare al link www.micromegaproject.com). Quali sono le tue fonti di ispirazione? Qualche testo da suggerirci?
Le mie ispirazioni provengono dalla società contemporanea, da film che hanno segnato la mia formazione, da testi visionari come “Iperoggetti” di Timothy Morton, ma anche dal pensiero di divulgatori come Telmo Pievani e Stefano Mancuso, dalle ricerche di Stephen Hawking sui buchi neri e da quelle di Giorgio Parisi sui sistemi collettivi e il volo degli storni. Tutti territori di frontiera tra scienza e filosofia, al confine dello scibile, sulla soglia del mistero. Da ragazzo leggevo molti gialli. L’idea che dietro i fenomeni più sorprendenti e inquietanti della natura si nasconda sempre un enigma – irrisolto ma spiegabile – credo abbia influenzato profondamente anche il mio modo di fare “politica” e critica sociale.
Mi ispira la complessità dell’epoca attuale: dalla politica internazionale, alle conquiste spaziali, alla cronaca nera. Ma una disciplina, più di tutte, consiglio di studiare – anche a me stesso: la geografia. Dentro c’è tutto: dalla fisica della materia alla formazione dell’universo, fino alle ragioni profonde delle disuguaglianze. Se impari a fare zoom in e zoom out, e hai familiarità con i sistemi complessi, potresti trovare proprio lì molte delle risposte che cerchi.

L’intelligenza artificiale è un tema oggi ricorrente e non usando l’IA la tua produzione artistica riflette sulle estetiche dell’IA e sulle opportunità e sfide poste da questa tecnologia. Come valuti l’impatto dell’IA sull’arte e sulla creatività?
In realtà è una sfida che sto affrontando col pudore e la cautela del felino che si avvicina alla preda. C’è molta “voga” e molta foga nell’utilizzarla per primi, come accade spesso con le nuove tecnologie; quindi, è materia da maneggiare con cura. La mia attenzione è rivolta a chi ovviamente saprà utilizzarla per la peculiarità artistica che la contraddistingue creando opere che ne rendano necessario, giustificato e imprescindibile il suo utilizzo. Siamo indubbiamente di fronte ad un’autentica rivoluzione senza ritorno, come accadde con la fotografia. Impossibile non esserne affascinati.
Nel frattempo, sto mettendo in campo, anche grazie all’arrivo di questo stimolante confronto, una serie di riflessioni sul concetto di intelligenza naturale e sul concetto stesso di “artificiale”, forviante in quanto l’AI è essa stessa un prodotto d’ingegno dell’animale uomo per migliorare la sua esistenza. La migliorerà, così come il castoro crea dighe artificiali per sopravvivere più efficacemente? O la peggiorerà, creando dipendenza o atrofia cerebrale, delegando alle sue risposte ogni minimo sforzo cognitivo, accelerando la nostra estinzione? Una sfida in sé davvero ghiotta per un artista concettuale come me sarebbe da pavidi non affrontarla. Il cervello, naturale o artificiale che sia, è il sistema complesso di interazioni per antonomasia; quindi, non può che essere pane per i miei denti.
Ho dei progetti che mi esaltano molto e non vedo l’ora di iniziare a lavorarci. Il nuovo concept album di Ottodix si occuperà esattamente di queste tematiche, quindi logicamente anche le nuove opere dal 2026.