Non c’è più sorpresa, ma forse non ce n’è nemmeno bisogno. Wes Anderson gira film che sono diventati piccoli universi autosufficienti, capsule di estetica e controllo dove ogni dettaglio è un atto di fede verso il proprio stile. Con La Trama Fenicia il regista americano non cambia rotta, anzi: raddoppia. Se negli ultimi anni aveva flirtato con il rischio di diventare un “pittore seriale”, qui sembra definitivamente abbracciare la sua natura di artigiano dell’immagine pura, sacrificando ancora una volta la carne viva del racconto sull’altare della forma.
C’è un momento — intorno al secondo capitolo — in cui ci si chiede se La Trama Fenicia sia un film o una mostra permanente al MoMA. Ogni inquadratura sembra voler essere incorniciata, ogni dialogo costruito come una pièce teatrale di altissimo artigianato. Ma la domanda resta: al di là della superficie, cosa ci sta raccontando Anderson?

L’intreccio, come spesso accade nei film del regista texano, è un elegante pretesto per mettere in scena le sue ossessioni stilistiche. In questa nuova prova, ci troviamo in una Fenicia immaginaria — un lembo di Medio Oriente trasfigurato dal filtro andersoniano, in cui le tensioni geopolitiche fanno solo da sfondo decorativo. Protagonista è Zsa-zsa Korda (Benicio del Toro), magnate un po’ Gatsby e un po’ Blofeld, che dopo l’ennesimo tentativo di omicidio subìto decide di riallacciare i rapporti con la figlia Liesl (Mia Threapleton), novizia in un convento situato in cima a una montagna surreale.
Il cuore del film è proprio questa relazione sospesa, fatta di non detti, malinconie e silenzi pesati al milligrammo. Padre e figlia si ritrovano in un dialogo costante tra il desiderio di riconciliazione e l’incapacità cronica di dirsi davvero le cose importanti. Anderson maneggia con maestria questa dinamica, come sempre supportato da una regia geometrica e una direzione attoriale quasi chirurgica.
Il comparto visivo è, inutile quasi sottolinearlo, ipnotico e filologicamente perfetto. La fotografia pastello di Robert Yeoman cesella ogni fotogramma come se fosse la copertina di un vinile anni Sessanta. I costumi di Milena Canonero raccontano i personaggi prima ancora che aprano bocca: abiti dalle linee nette, palette cromatiche attentamente studiate, e una cura maniacale per ogni accessorio. Ogni dettaglio contribuisce a creare quel mondo sospeso, surreale ma credibile che da sempre caratterizza il cinema di Anderson.

Anche il cast, come da tradizione, è una parata di volti noti e perfettamente calibrati. Del Toro offre una performance intensa, compressa, trattenuta, in perfetta sintonia con l’universo emotivo rarefatto del film. Threapleton, che molti ancora ricordano più per la parentela che per la carriera, qui dimostra una sorprendente profondità, riuscendo a trasmettere una tenerezza cruda senza mai scivolare nel sentimentalismo. A fare da contorno, una serie di comprimari andersoniani DOC: Michael Cera, nel ruolo del goffo precettore dei nipoti, regala momenti di leggerezza che sfiorano il grottesco; Tom Hanks, nel ruolo di Leland, collega di Korda, aggiunge una presenza solida e misurata; Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Bryan Cranston, Riz Ahmed, Jeffrey Wright, Richard Ayoade e Bill Murray completano un ensemble che brilla per coesione e carisma.
Tuttavia, ed è qui che la questione si fa spinosa, La Trama Fenicia è anche il film più manierista e autoreferenziale di tutta la carriera di Anderson. Tutto è controllato, tutto è incasellato, tutto è prevedibilmente perfetto. Ma proprio questa perfezione rischia di anestetizzare lo spettatore. La trama procede per accumulo, più che per progressione: a un certo punto ci si chiede se il film stia ancora raccontando qualcosa, o se stia semplicemente continuando a esistere dentro la sua stessa bolla estetica.
Ciò che negli esordi di Anderson era freschezza e originalità (penso a I Tenenbaum o a Rushmore) qui rischia di diventare una ripetizione elegante ma vuota. È come se il regista fosse ormai prigioniero del suo stesso stile, incapace — o forse non interessato — a spingersi oltre quella comfort zone che il pubblico gli chiede e la critica gli concede.

Naturalmente, per chi ama Anderson a prescindere, La Trama Fenicia resta un’opera godibile, persino deliziosa. Il suo cinema è diventato una sorta di comfort food visivo: sai già cosa aspettarti, e proprio per questo continui a cercarlo. Ma chi ancora spera in un Anderson capace di sorprendere davvero, forse uscirà dalla sala con un senso di bellezza stanca. La macchina funziona, ma gira un po’ a vuoto.
In definitiva, La Trama Fenicia conferma lo status di Anderson come maestro indiscusso di stile, ma anche come narratore che rischia di essersi messo in un vicolo cieco creativo. Non è un brutto film. È solo un film che abbiamo già visto, anche se mai con esattamente questi colori.