La leggenda del coniglio lunare, secondo l’arte coreana, al MAO di Torino

Okay, we’ll keep a close eye for the bunny girl” (“Ok, terremo gli occhi aperti per la coniglietta”) ironizzò l’astronauta statunitense Collins coi colleghi della base di Houston, mentre praticava l’orbita intorno alla Luna, quell’ormai noto 20 luglio 1969

L’aneddoto fa riferimento alla legenda buddista del coniglio lunare, secondo la quale una divinità celeste decise di premiare la virtù dimostrata da un coniglio conferendogli il privilegio di abitare sulla Luna. La tradizione coreana vuole che ogni anno ci si riunisca in una notte d’autunno per osservare la luna piena e scovare l’immagine dell’animale, come segno di buon auspicio per il prossimo futuro.

Bisogna tenere a mente questa leggenda per avere la chiave di lettura della nuova mostra Rabbit Inhabits the Moon. L’arte di Nam June Paik allo specchio del tempo al MAO Museo d’Arte Orientale di Torino, fino al 23 marzo 2025.

ph Perottino

Così come questa leggenda è stata sottoposta nel corso del tempo a diverse riletture ed interpretazioni, non solo appannaggio del mondo orientale, ma anche nell’immaginario più contemporaneo e occidentale, così il museo torinese ci invita ad una nuova riflessione sull’eredità artistica del più noto artista coreano dell’ultimo secolo, Nam June Paik (1932-2006). A fianco di quest’ultimo, infatti, sono presenti lavori di artisti connazionali contemporanei che si sono cimentati in composizioni musicali, video e installazioni, per reinterpretare i miti e le storie della grande tradizione. 

Fil rouge che unisce le opere è senza dubbio il loro carattere sonoro e performativo, erede di una pratica squisitamente fluxus, tanto cara al maestro coreano. La casualità del suono e la capacità di azione nel movimento sono catturate nelle 111 partiture del Notturno n.20 di Chopin (Kyuchul Ann, 2013-2020) e nella danza alla luna Ganggangsullae al martellante ritmo di un dettato di consonanti in inglese e Hangeul (Jesse Chun, 2020). Oppure nelle rinomate installazioni a monitor che ripropongono le storiche immagini dell’allunaggio di Armstrong sulle note di Debussy (Naim June Paik, 1969). 

ph Perottino

Paik ci ha abituato ad un linguaggio che non si pone limiti né di tempo né di spazio: l’attualità storica, politica e sociale della contemporaneità si mescola a contenuti artistici letterari, poetici e musicali svelando la sua natura totalmente frammentata e liquida, come direbbe un filosofo. E quale medium è più congeniale del video per dimostrarlo? A Paik, sicuramente, va il merito di esserne stato il pioniere: l’opera Ecce Homo (1989) è il contraltare dell’uomo vitruviano vinciano e condanna l’essere umano moderno a essere “tecnologicamente” mediato, per essere rappresentato.

ph Perottino

In mostra non mancano poi riferimenti alla dimensione spirituale, molto sentita dallo stesso artista, in particolare, allo sciamanesimo. 

Ecco perchè al centro del percorso espositivo, vi è una sala che intende proprio evocare un tempio sciamano coreano, dove trovano spazio alcune opere di Paik accostate alle immagini del suo rito funebre compiuto dalla sacerdotessa Kim Keum-Hwa. L’essere all’interno di una “ricostruzione” di un tempio sacro rimanendo circondati da oggetti tecnologici (televisori, principalmente) riporta lo spettatore all’immaginario dissacrante creato proprio dall’artista nella sua pratica. La TV è una divinità per la società contemporanea. 

Il coniglio che guarda alla luna attraverso lo schermo televisivo non è altro che l’essere umano che dichiara di essere andato sulla Luna perché ne ha visto l’immagine in televisione. E nel frattempo si interroga se sia realmente successo o è solo un’invenzione. Ma questa è un’altra storia.

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