C’è un momento, nella storia dell’arte contemporanea, in cui il discorso curatoriale smette di essere cornice e si fa corpo, materia viva. Koyo Kouoh, scomparsa improvvisamente nel lo scorso sabato, ha incarnato proprio questa trasformazione. Curatrice, teorica, attivista culturale, Kouoh non è stata solo una figura chiave nella costruzione dell’ecosistema dell’arte africana contemporanea: è stata, in modo ancora più dirompente, una decostruttrice delle impalcature epistemiche dell’arte occidentale.
Una figura che ha portato in primo piano il concetto di restituzione, non solo come atto museale, ma come postura politica e dispositivo teorico. Nata in Camerun e cresciuta in Svizzera, Kouoh ha incarnato in sé l’attrito creativo tra periferia e centro, tra diaspora e radicamento, ma piuttosto che cercare di colmare la distanza, l’ha usata come leva. La sua opera teorica, incarnata nelle programmazioni del Raw Material Company a Dakar e successivamente nel suo lavoro al Zeitz MOCAA di Città del Capo, ha messo in discussione l’idea stessa di “centro culturale”. In un’intervista con il magazine Ocula, Kouoh ha affermato: “Ho superato l’idea dell’Africa come regione geografica e piuttosto la considero una mentalità, per darle uno spazio mentale che può essere abitato da chiunque sia interessato all’idea dell’Africa”
Il suo approccio curatoriale è stato profondamente influenzato da pensatori come Édouard Glissant, Stuart Hall e Achille Mbembe, ma anche da una lunga tradizione di pratiche artistiche comunitarie e femministe. In Kouoh, la curatela si fa praxis, un’intersezione tra teoria critica, impegno sociale e sensibilità visiva. Uno degli assi teorici del suo lavoro è stato il rifiuto della neutralità dell’arte. Kouoh non ha mai creduto in una distanza tra estetica e politica; piuttosto, ha rivendicato l’opera d’arte come specchio, lente e al tempo stesso ferita aperta del corpo sociale.

La mostra “When We See Us: A Century of Black Figuration in Painting” (2022), una delle sue più celebrate, è stata letta non solo come un atto di riappropriazione dello sguardo nero, ma anche come una sfida diretta ai paradigmi espositivi eurocentrici. Kouoh ha proposto un altro modo di abitare lo spazio museale: non più la “white cube” dell’oggettività modernista, ma uno spazio poroso, contaminato, polifonico. Un museo non come tempio, ma come agorà. Ma è nel concetto di riparazione che il pensiero di Kouoh ha trovato la sua tensione più potente. Per lei, curare era un atto riparativo, nel senso letterale del termine: riparare ferite coloniali, storie spezzate, genealogie interrotte.
Il museo diventa così uno spazio per la cura—non solo dell’opera, ma delle relazioni, delle memorie, delle soggettività marginalizzate. Questa postura trova una delle sue espressioni più chiare nella sua nomina storica alla Biennale di Venezia 2026—la prima donna africana in quel ruolo. Il fatto che la morte l’abbia colta proprio durante la fase concettuale della mostra, a poche settimane dalla presentazione del tema, amplifica il peso simbolico della sua assenza.
Kouoh non ha lasciato un titolo per la Biennale, ma ha lasciato una grammatica: l’urgenza di riscrivere le regole del gioco curatoriale. L’eredità teorica di Koyo Kouoh è pericolosa, perché non propone nuovi modelli estetici da incorniciare, ma mina le fondamenta stesse della gerarchia culturale. Non offre soluzioni facili, ma chiede domande scomode: chi decide cosa è “arte”? Chi ha diritto di raccontare? Cosa resta da dire quando il linguaggio stesso è stato storicamente colonizzato?
Nel panorama curatoriale globale, la sua scomparsa lascia un vuoto che difficilmente potrà essere colmato con le logiche usuali delle sostituzioni istituzionali. Kouoh non era una “voce africana” nella curatela internazionale: era un’interruzione strutturale, un codice imprevisto, un errore sistemico necessario. Nel 2020, durante una conferenza a Berlino, Kouoh disse: “Il futuro della curatela è nell’arte del prendere posizione, anche quando è scomoda, anche quando ti costa.”
Questa è forse la chiave ultima del suo lascito: la curatela come forma di posizionamento etico. In un’epoca in cui il sistema dell’arte cerca costantemente di metabolizzare il dissenso, Kouoh ha resistito all’addomesticamento, rimanendo fedele a un’idea radicale di giustizia estetica. Il suo pensiero sopravvive non solo nei suoi testi e nelle sue mostre, ma soprattutto nelle nuove generazioni di curatori e artisti che vedono nella curatela non un mestiere, ma una forma di militanza intellettuale. Ecco perché, oggi, il miglior modo per ricordare Koyo Kouoh non è solo intitolarle un padiglione o una borsa di studio—ma continuare a disobbedire.
Articolo perfetto complimenti. Se finalmente nel 2026 andrò alla Biennale Arte vincerò il Leone d’Oro per l’Italia con dedica a Koyo.