Una notte di mare nera. Nel buio. Due uomini sono su una barca. O forse no. Una barca non c’è. Qualcosa è già accaduto. Uno si è ucciso. Forse. Ma perché lo hai fatto?”. “L’ho fatto e basta”. Forse sono gia tutti e due morti o forse sono davvero due marinai che vagano nella notte sul mare infinito. La storia non è chiara. Le parole galleggiano sull’acqua quel turbinio di parole, a cui aggrapparsi, di così, ecco, cioè, ma, poi, forse. Voci che fluttuano in uno spazio immaginario. Domande, silenzi, invocazioni si perdono al largo, tra la nebbia. E il vento sospinge la barca verso il largo. Verso un’isola “dove non cresce nulla, dove non c’è nulla se non rocce grigie e nude”. Ma chissà se poi è vero. Forse tutto è un’illusione, una fantasticheria.
Ha debuttato in prima assoluta ed è restato in cartellone fino al 30 maggio al teatro Elfo di Milano Io sono il vento, testo teatrale trascinante, criptico del celebre scrittore norvegese Jon Fosse, Premio Nobel per la Letteratura 2023 “per la sua capacità di dare “voce all’indicibile”. Marco Bonadei, classe 1986, in scena insieme ad Angelo Di Genio, firma un originale progetto registico dal forte impatto visivo e performativo.
Una grande vasca d’acqua bianca 12 metri per 3 domina la scena. Due figure in impermeabili neri. Due uomini senza nome. Sono l’Uno, e l’Altro. Forse sono due amici, due amanti, sono padre e figlio o forse la stessa persona che si interroga, si osserva attraverso una doppia angolazione? Non sappiamo nemmeno dove vogliano andare, da dove vengano. Forse cercano la salvezza e un approdo, forse anelano alla pace che c’è solo nella fine ultima. Si parlano. Sotto una pioggia di microfoni neri che fanno risuonare a ondate, negli schizzi d’acqua, suoni, grida, risa scomposte, pianti trattenuti, singhiozzi, frammenti di parole. Forse è sul senso dell’esistenza che si interrogano. Forse si parlano da un oltre, il confine fra vivi e morti è gia stato superato. L’Uno è “andato.”

Sono via / Sono andato via con il vento”. Un dialogo interiore, forse. Sulla scena, per buona parte immersi nell’acqua, Marco Bonadei e Angelo Di Genio non si risparmiano nel fisico oltre che nella recitazione verbale, spericolati e bravissimi nel modulare le voci dal sussurro alle grida, a tratti in una condizione di pausa protratta che assomiglia a una sorta di apnea dell’anima. Acrobatici e resistenti nel restare immersi nella vasca per tutta la durata dello spettacolo – di questo viaggio sospeso tra infinito e nulla, tra mare e cielo, tra vita e morte – e rendono tangibili e quanto mai vicini anche per noi la fatica, la paura, la ricerca e infine l’arrendersi al mistero.
Uno spettacolo ammaliante e coraggioso. Un viaggio notturno verso l’Ignoto, verso il limite di tutte le cose, sul confine sottile che separa vita e morte. In una vertigine che annebbia il nostro senso dell’orientamento. Per scoprire forse una leggerezza impossibile. Un viaggio che ci conduce ai confini del linguaggio. Per dire l’indicibile. E farsi vento.

Abbiamo intervistato Marco Bonadei. Risponde alle nostre domande con la voce di chi è felice di parlare del proprio lavoro, di condividerne idee e pensieri.
Come è avvenuto l’ incontro con il testo di Jon Fosse? E perché hai scelto di rappresentarlo?
La lettura mi era stata consigliata da un collega, il testo non lo conoscevo, è stato un innamoramento assoluto, a partire dal titolo Io sono il vento, è come un respiro della terra e della cielo, che porta con sé un’energia vitale, con significati che spaziano dalla libertà all’inafferabilità e alla mutevolezza. Ne sono rimasto folgorato anche se non l’ho compreso. Per comprenderlo sono state necessarie molte letture, e alla fine ho compreso che dovevo arrendermi al mistero. Questo testo implica una forma di abbandono, verso qualcosa che non si comprende del tutto e agisce in un modo che non puoi definire razionalmente.

Cosa ti ha colpito?
La sua capacità di sondare il mistero dell’esistenza umana con una profondità spirituale unica. La sua scrittura rarefatta, minimalista, dove conta più ciò che viene taciuto e che ci fa toccare l’inesprimibile. Nella poetica dello scrittore norvegese riecheggia il pensiero di Ludwig Wittgenstein “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Fosse sa custodire il mistero, e al tempo stesso ce lo trasmette. La sensazione che ciò che si dice o che accade alluda ad altro. Nel tempo del rumore, delle opinioni perentoree, in un mondo che teme il vuoto, Jon Fosse ci ricorda che proprio lì – nel vuoto, nell’interruzione, nel non detto, nella sospensione –, si può ancora entrare in contatto con il senso del sacro. Le sue opere, così asciutte, non offrono certezze, ma aprono domande sul (non) sense esistenziale, che sta alla base delle vite di ciascuno di noi.
Leggendo il testo la prima immagine che ti è venuta?
L’isola dei morti, il dipinto di Arnold Böcklin. Una delle opere più enigmatiche al mondo: un mare color petrolio, denso e calmo, un’isola fatta di rocce, nicchie scavate nella pietra, un cuore boscoso di cipressi dalla punta aguzza, e una esile barca a remi che si avvicina, sulla quale spicca vista di spalle, una figura biancovestita, una bara, posta di traverso e coperta da un telo sul quale è stata deposta una ghirlanda intrecciata.

Fosse ha fatto del silenzio la cifra della sua drammaturgia, mi sembra una bella sfida metterlo in scena…
Per Fosse la parola stenta ad arrivare alle labbra per la difficoltà, o forse addirittura l’impossibilità, della parola di esprimere il dramma dell’esistenza. Si tratta dunque di cercare il senso al di qua e al di là delle parole. Sono i silenzi a parlare. Il silenzio di Fosse non è assenza, non è mancanza, ma presenza, densità, rivelazione. Il silenzio non copre, ma tira fuori, illumina, o, meglio, è luce. Ciò che è decisivo, ciò che è davvero importante sta nel vuoto, in ciò che non viene detto. Dal punto di vista teatrale il silenzio di Fosse è vera e propria battuta, con dei tempi, dei ritmi, delle indicazioni d’autore precise. A chi gli ha chiesto cosa resterà della letteratura, Fosse ha risposto: “Resterà ciò che è scritto nel silenzio”.
Come spesso capita con Jon Fosse, le connotazioni identitarie dei personaggi sono del tutto assenti. Chi sono l’Uno e l’Altro non ci è dato sapere.
L’identità stessa è percepita da Fosse come un limite per comprendere il senso profondo dell’esistenza, come se mentisse sull’essenza più intima dell’essere umano e nascondesse quell’estasi del vuoto quando non si è più “qualcuno”. La morte che aleggia nel testo è anche abbandono della identità rigida a cui siamo tanto aggrappati. Non c’è dubbio c’è vistosamente anche il teatro di Beckett, i drammi di Fosse sono spesso ambientati in spazi indefiniti, dove il tempo sembra sospeso e i personaggi si muovono in una dimensione di attesa. Quest’attesa, che ricorda l’opera di Beckett, è però intrisa di una tensione spirituale. Così come nel romanzo Io è un altro, due uomini condividono lo stesso nome, Asle,si assomigliano, si vestono allo stesso modo e sono entrambi pittori, ci sono rimandi all’affermazione rimbaudiana “Je est un autre“. Dire “Io è un Altro” significa ammettere che ogni individualità è, in realtà, abitata da un’alterità, da un abisso insondabile che abita l’Io.

Fosse accosta la sua scrittura ai monocromi di Rotko, il pittore del silenzi.
Anche Rotko sfida l’indicibilità. Il prodigio compiuto dal pittore americano è di farci vedere il buio luminoso oltre la tela. Illumina la dimensione del sacro. La scrittura, come la pittura, cerca di rendere visibile ciò che è invisibile. La pausa, il non detto, in un testo o in un’opera teatrale è come una zona bianca su una tela: è lì che si genera il senso più profondo.
La frase che hai più a cuore di questa piece?
“Ho sempre avuto paura che accadesse. Ho pensato che sarebbe accaduto. Poi è accaduto semplicemente “.

La drammaturgia di Fosse ha molteplici possibilità di messinscena. In base a quale criterio o poetica hai impostato la regia?
Lavorando sul testo, ho avvertito la necessità di costruire una partitura di movimenti che si accordasse con quella verbale e musicale del testo, in uno spazio che in Fosse è sempre spazio astratto, creando un’esperienza teatrale sospesa tra presenza e assenza, parole e silenzio, concretezza e ombra, tra l’angoscia, la paura dell’ignoro, e la sensazione di libertà che si trovano nel vuoto. La sfida è stata quella di tradurre il vuoto in vibrazione, di restituire un’esperienza sensoriale e carnale senza tradire la complessità filosofica, anzi spirituale, del testo. Volevo che il testo parlasse, non ad un pubblico generico, ma a ciascuno spettatore nella sua singolarità e che ciascuno spettatore potesse trovare personalmente con la propria immaginazione, i propri pensieri, e le proprie emozioni, la chiave per aprire le porte che Fosse lascia socchiuse. Si può ancora chiedere allo spettatore di non capire, ma di sentire?
Davvero suggestiva e potente la pioggia di microfoni che dall’alto sovrastano la scena…
Una coltre di spilli. È un immagine scenografia che ho ripreso da una bella poesia di Aldo Palazzeschi, I Fiori, che continua a tornarmi alla memoria, a cui sono molto affezionato, recitata magistralmente anni fa da Paolo Poli: “Levai la testa al cielo/per trovare un respiro/ mi sembrò dalle stelle pungermi malefici bisbigli/e il firmamento mi cadesse addosso come coltre di spilli“. I microfoni sono elementi scenografici, gli unici. Dal punto di vista tecnico, servono per amplificare i movimenti dell’acqua, i brusii nella testa, le domande continue, i respiri, le grida, i silenzi che irrompono nella struttura narrativa e la spezzano. Un cospicuo numero di idrofoni, speciali sensori per rilevare suoni e vibrazioni in acqua, sono stati collocati anche nella grande vasca, come fosse un mondo ctonio, in cui ogni suono ogni respiro, lo stesso vuoto, viene amplificato.

Regista e al tempo stesso interprete; come funziona lo sdoppiamento?
Ho consolidato negli anni un nucleo solido di collaboratori, e le cose diventano piu facili. Dalla mia compagna Chiara Ameglio ad Angelo di Genio. Poi sono di aiuto le riprese delle prove. Alessandro Frigerio, assistente alla regia, filmava con il telefonino le scene durante le prove e poi le guardavo. Come i registi cinematografici che rivedono alla fine della giornata il girato giornaliero.
A Chiara Ameglio, danzatrice e coreografa, hai affidato la drammaturgia dei corpi.
Nel corpo dell’attore abita la parola. La parola diventa corpo e non solo voce. Con Chiara abbiamo lavorato a stretto contatto, interrogandoci su che cosa sia il vuoto nel corpo, abbiamo affrontato il concetto di tempo dilatandolo, nella dinamica e nella ripetizione del gesto. Poi è arrivata l’interazione con l’acqua, elemento centrale dello spettacolo. L’acqua in cui i due personaggi si abbandonano con cerate nere, i corpi che si avvicinano, si sfidano e si rincorrono negli schizzi di quell’acqua.
La passione per il teatro come nasce?
All’età di cinque anni, durante le elementari, con la “r” moscia presentavo la recita di Natale a tutti i genitori. Lì si è accesa la fiamma. A 12 anni ho avuto la fortuna di essere scelto per un spettacolo del teatro Stabile di Genova per uno spettacolo in collaborazione con una associazione che si occupava di disabiltà con i ragazzini delle scuole. L’incontro con Marco Sciaccaluga, punto di riferimento del teatro genovese, mi spinse a continuare. Mi trasferisco a Torino dove mi diplomo alla Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino. Tre anni in stretta condivisione con un gruppo di ‘pazzi’ come me, a vivere e fare tutto insieme.

Dal 2010 collabori stabilmente con la compagnia del Teatro Elfo Puccini di Milano.
L’Elfo ha segnato in senso positivo la mia attività artistica. E pensare che tutto era nato per caso: decisi di partecipare a un provino di massa. Il debutto è staro con The history boys, una commedia di Alan Bennett per la regia di Ferdiando Bruni e Francesco De Capitani.
Spettacolo che fece incetta di premi, compreso il Premio Ubu collettivo al cast degli otto giovani attori under 30 di cui facevi parte proprio insieme ad Angelo di Genio.
E da lì, mostrarono interesse per le mie interpretazioni. Fu l’inizio di una bella storia, che continua ancora oggi.

Il luogo dove ti vengono le idee?
Camminando. Secondo il filosofo Friedrich Nietzsche “tutti i pensieri veramente grandi sono concepiti camminando” (ride)
Chat Gpt è in grado di generare testi, modulando lingua, stile e formato. Cosa ne pensi? Porteresti in scena testi teatrali scritti dalla intelligenza artificiale?
Scrivere con l’IA può essere uno strumento utile, se usato con consapevolezza, ma non possiamo delegare a Chat Gpt la nostra capacità di pensare. Scrivere è pensare, significa strutturare il pensiero, rallentare per capire, esplorare se stessi. La scrittura è introspezione, riflessione, serve a farci capire chi siamo. Occorre trovare un equilibrio, tra progresso tecnologico e mantenimento delle nostre capacità umane fondamentali. È davvero un progresso, se smettiamo di formulare il nostro pensiero e affidarlo ad algoritmi che scrivono per noi?