Il mistero del blu in Pollock: scoperto il pigmento mancante

È stato finalmente risolto uno dei segreti cromatici di Jackson Pollock. Nel celebre quadro Number 1A, 1948, esposto al MoMA, quel blu turchese che affascinava da decenni è stato identificato con certezza: è il pigmento sintetico noto come manganese blue.

La diagnosi è il risultato di uno studio condotto da scienziati della Stanford University in collaborazione con il MoMA. Per la prima volta, con l’aiuto di tecniche avanzate come la spettroscopia Raman e analisi laser, sono state prelevate piccole porzioni di pittura blu dal dipinto. L’esito è un’“impronta molecolare” che coincide senza ambiguità con il manganese blue. Fino ad oggi si sapeva che Pollock usava pigmenti sintetici, vernici industriali e colori dagli effetti vivaci o tossici, ma non si aveva prova certa che questo pigmento specifico fosse presente nella sua tavolozza.

La scoperta è significativa sotto vari aspetti. Innanzitutto, fornisce nuove informazioni sul materiale e sulle scelte cromatiche di Pollock: quel blu non era un effetto accidentale, ma una scelta consapevole, parte dell’equilibrio visivo complesso del dipinto. Quel turchese non emanava solo luce estetica, ma conteneva una componente tecnica che aumentava la vividezza, la profondità e il contrasto della composizione.

Jackson Pollock in his studio in East Hampton New York in 1953 Photo Tony VaccaroGetty Images

In secondo luogo, il pigmento manganese blue porta con sé una storia chimicamente controversa. È un pigmento sintetico che nel corso del XX secolo veniva usato da artisti, ma è stato progressivamente abbandonato entro la fine del secolo, in parte per motivi ambientali: alcune sue componenti sono ritenute problematiche in termini di impatto ambientale. Il suo uso oggi è raro, ma sapere che Pollock lo impiegava ci avvicina a capire il contesto industriale e tecnico dell’arte americana del dopoguerra, l’accesso agli smalti sintetici, le sperimentazioni con vernici non convenzionali che caratterizzano quel periodo.

Un altro beneficio di questa identificazione riguarda la conservazione del dipinto. Conoscere esattamente la composizione chimica dei pigmenti permette ai restauratori di valutare meglio come reagiranno materiali come manganese blue alle condizioni ambientali: luce, umidità, ossidazione. Sapere che quel blu si degrada in un certo modo o che è più sensibile a determinati agenti consente di adottare strategie più precise per la tutela.

La scoperta aggiunge anche un tassello importante nell‘autenticazione delle opere. Essere in grado di riconoscere pigmenti specifici può aiutare a discriminare tra opere autentiche e repliche o falsi che non potrebbero riprodurre esattamente il tipo di blu usato da Pollock in quel periodo, o che non possono avere la stessa impronta molecolare.

Jackson Pollock One Number 31 1950 on view at the Museum of Modern Art New York Photo Rob Kim Getty Images

Dal punto di vista artistico, l’uso del blu manganese contribuisce a chiarire alcune delle tensioni visive proprie dello stile drip di Pollock: gli intrecci di colore, i gocciolamenti sovrapposti, gli effetti di profondità ottenuti non solo con la composizione, ma con la qualità del pigmento. Quel blu turchese, ora identificato, non è elemento secondario: dialoga con gli altri colori, si pone come punto di equilibrio o di contrasto, illumina certe zone e influenza lo spazio visivo del dipinto in modo più radicale di quanto si credesse.

È emerso che Pollock non mescolava sempre i colori su tavolozza: spesso lanciava, gocciolava, usava vernici industriali direttamente dal barattolo. Ciò rende il ritrovamento del manganese blue ancora più coerente con la sua pratica di sperimentazione e “azione” pittorica: la scelta cromatica non è mai intervenuta solo dal punto di vista compositivo, ma anche come elemento tattile e fisico del processo.

Questo studio, pubblicato su una rivista scientifica di rilievo, rappresenta un punto di svolta nel dialogo sempre più fecondo tra scienza, conservazione e storia dell’arte. Offre un esempio di come analisi materiali, chimiche e spettroscopiche possano arricchire la comprensione di opere iconiche, restituendo dettagli invisibili o ipotizzati per anni.

La conoscenza del pigmento arricchisce la nostra percezione: non cambia la potenza del dipinto, ma aggiunge uno strato di comprensione in più, apre domande su come il colore venga vissuto, conservato, immaginato. Per il pubblico, per gli studiosi, è un invito a guardare Pollock non solo come mito dell’espressionismo astratto, ma come artigiano della materia, sperimentatore che sceglieva ogni colore non solo per il suo impatto visivo, ma per la sua sostanza chimica.

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