Göbeklitepe, ecco perché la mostra al Colosseo sull’enigmatico sito archeologico è un’occasione persa

Sono stato a vedere la mostra “Göbeklitepe. L’enigma di un luogo sacro”, ospitata al Parco Archeologico del Colosseo. Una tappa quasi obbligata per me, il mio percorso da podcaster è cominciato proprio con un contributo sul sito anatolico. Una scelta programmatica che rifarei ancora, ma che mi lascia comunque, ogni volta che ci rifletto, un senso di frustrazione: nella sua straordinaria novità, “la collina panciuta” non si lascia mai definire nella sua totalità, non si lascia mai abbracciare nella sua interezza, c’è sempre qualcosa in più da dover dire, da dover considerare, da dover raccontare.

E infatti, nonostante la sua straordinarietà, una prima considerazione da fare è che è ormai chiaro che Göbekli Tepe non può più essere visto come un unicuum, come un momento irripetibile e irripetuto, una cattedrale nel deserto, quanto piuttosto deve essere considerato nel suo stretto rapporto con gli altri siti gemelli – da Karahan Tepe a Sayburç a Çakmaktepe e così via –  di Taş Tepeler, quest’area dell’Anatolia mesopotamica, “terra della grande trasformazione”, dove il passaggio tra Paleolitico e Neolitico più fa sentire la sua peculiare potenza nel lungo cammino dell’umanità.

A onore del vero, sin dai primi pannelli espositivi, ospitati in un cantuccio del secondo livello dell’anfiteatro, lì dove i turisti già assaporano l’euforia dell’arena e della foto (e – magari – poco si curano degli enigmi anatolici), appare evidente come la mostra non voglia concentrarsi “solo” su Göbekli Tepe, ma desideri fornire una panoramica d’insieme su tutta Taş Tepeler, su tutta la complessa e fondamentale transizione dal nomadismo alla vita sedentaria. Una premessa quasi eccitante, potenziale preludio a una trattazione di siti megalitici sì di straordinaria e conclamata importanza, ma ancora – in buona sostanza – poco conosciuti dal grande pubblico, che avrebbero tante cose da dire, tante cose da mostrare.

Il percorso di visita ricrea l’andamento curvilineo dei circoli megalitici, e le riproduzioni dei grandi pilastri a T (con tanto di disegni a replicare gli enigmatici graffiti) si alternano a grandi pannelli fotografici e/o didascalici. Potrebbe sembrare di intraprendere proprio un percorso iniziatico, in linea con “l’enigma” evocato dal titolo della mostra. Ma proprio quando ci si aspetterebbe di arrivare alla grande verità alla fine del percorso, proprio quando il visitatore è finalmente pronto a scoprire Göbekli Tepe, anche sostenuto da un impianto didascalico e visivo tutto sommato più che soddisfacente (qualche ricostruzione grafica non l’ho ben capita, ma il pelo nell’uovo è quasi obbligatorio digerirlo), ecco che… Göbekli Tepe non c’è!

Tre teche, ognuna delle quali ospitante un “reperto” (una stele con donna partoriente, una statua di cinghiale e una statua di avvoltoio), che reperto non è, bensì copia di reperto, riproduzione. Fine dei giochi.

Ora, nessuno si aspettava che qualcuno portasse un pezzo di Turchia in Italia, men che meno un pezzo così delicato e prezioso, ma – francamente – tre copie per tre teche (a questo punto oserei dire anche inutili, si poteva rispolverare l’esperienza sensoriale del tocco) mi sembra un po’ poco. Dove sono le protomi itifalliche? Dove sono gli spaventosi predatori che digrignano i denti? E visto che si parla di tutta Taş Tepeler, visto che si affronta la transizione da Paleolitico e Neolitico, da nomadismo a sedentarizzazione, mostrare un po’ di cultura materiale, per soddisfare il feticismo del reperto che ossessiona un po’ tutti e anche per chiarire un po’ meglio come si realizza questa transizione, non sarebbe stata cosa buona e giusta?

Mentre scrivo, mi impongo di prendere in considerazione l’ipotesi che – forse – sono io a essere troppo pretenzioso; forse sono arrivato un po’ troppo “gasato” all’appuntamento, mi aspettavo chissà cosa e ora mastico amarezza e frustrazione.

Il punto è che la delusione è sempre proporzionale all’aspettativa, e io avevo grandi aspettative. Le premesse c’erano: l’idea di installare la mostra nel Colosseo, unendo idealmente due complessi di forma curvilinea, e accostando visivamente i pilastri a T anatolici con quelli in tufo e travertino dell’anfiteatro, l’ho trovata veramente suggestiva e azzeccata. Ma il ripieno non è altrettanto all’altezza dell’impasto. E di fronte al nero pannello dei credits il senso che prevale è quello della delusione.

Ne so veramente poco di museologia. Spero che qualcuno più al di dentro della questione possa farmi ricredere su quest’esposizione, anche prendendomi a pesci in faccia. Per il momento, sempre tifando più per il contenuto che per il contenitore, non posso che dire: peccato, peccato! 

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