Comedian di Cattelan? Chiquita, ça va sans dire. Lo squalo di Damien Hirst (The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991)? Beh, che domande: Findus. E la Venere degli Stracci di Pistoletto? Non poteva che essere Dash (“più bianco non si può”). Il “volo” di Yves Klein, invece, è accostato a Red Bull (“ti mette le ali”), mentre le sei michette immerse nel bianco del caolino da Piero Manzoni non potevano che associarsi al logo del Mulino Bianco. E ancora: Boetti, Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969: Nivea Sun, ovviamente. E il monumento a Vladimir Tatlin di Dan Flavin, con le sue lampade fluorescenti allineate a replicare l’andamento piramidale del Monumento alla Terza Internazionale? L’associazione è immediata: Enel. Non poteva mancare la Mozzarella in carrozza di De Dominicis, accompagnata dal logo della Santa Lucia di Galbani, mentre per il letto disfatto di Tracey Emin, My Bed (1998), ecco trovato un marchio che sembra ricamato apposta: Eminflex, forse meno noto di altri ma perfetto per la consonanza fra nome dell’artista e del marchio stesso.

Potremmo andare avanti ancora a lungo con gli esempi: si va fino al lavoro (con sottofondo tragico e sentimentale) Untitled (Portrait of Ross in L.A.) di Félix González-Torres, rappresentato da un mucchio di caramelle del peso originario di 79 chili (lo stesso del compagno dell’artista, Ross, prima che venisse consumato dall’Aids), da cui il pubblico era invitato a prelevare caramelle e che viene continuamente ricostituito: elegia della perdita e, insieme, della persistenza dell’amore e del ricordo, associato – con un bel po’ di pelo sullo stomaco – al marchio Haribo; fino alla serie, amplissima, dedicata a Marina Abramović: The Artist Is Present (MoMA 2010: seduta immobile, sguardo negli occhi di ogni visitatore) con Tinder; AAA AAA (1978: lei e Ulay che si urlano in volto fino allo sfinimento) con Tantum Verde (“Ciao Bocca sana!”); The Lovers – The Great Wall (1988: novanta giorni di cammino separati sulla Muraglia per dirsi addio) con Decathlon; la levitazione fotografata in The Kitchen (2009) con Red Bull (“RedBull ti mette le AAAli”); la treccia condivisa di Relation in Time (1977) con L’Oréal; e Rest Energy (1980: arco teso, la punta della freccia sul cuore) con Frecciarossa.

Per chi non l’avesse ancora capito, siamo di fronte alla nuova “campagna memetica” di Giulio Alvigini, enfant prodige della nuova arte italiana, il primo ad aver preso a prestito il linguaggio più significativo della contemporaneità fluida – il meme – per affrontare il presente e incidere nel sistema dell’arte. Se alcuni utilizzano la pittura, altri l’installazione, il video, la scultura o la performance, Alvigini interviene – rigorosamente dalla sua pagina, genialmente intitolata MIAGA (Make Italian Art Great Again, acronimo-sfottò, in perfetto stile memetico, del tristemente dilagante MAGA trumpiano) – con meme, immagini, battute calibrate sul lessico dell’oggi.
Recentissima, questa sua ultima “campagna memetica”, di cui abbiamo sintetizzato poco sopra alcuni passaggi, riapre questioni centrali: il rapporto fra arte e brand, l’artista come marchio, la forza dei loghi che assorbono anche la critica, il confine fra satira e caricatura. Il tema non è nuovo: basti pensare ai vasi di Ai Weiwei con lo swoosh Nike rovesciato e al paradosso – già osservato da Naomi Klein nel suo fondamentale No Logo – di loghi che assorbono perfino la critica. Con Alvigini, abbiamo ragionato su tutto questo, e siamo andati anche oltre: nell’intervista che segue, imfatti, è nato anche un inedito pensato al momento dall’artista, e “regalato” alla rivista come ricordo di questa conversazione. Ecco, qui di seguito, l’intervista.

Giulio, partiamo da questa tua nuova “campagna” di opere-meme, nella quale accoppi opere celebri degli artisti con marchi di prodotti. Siamo in un momento in cui il potere dei brand e dei marchi è alla sua massima potenza: che senso ha per te questo progetto e come nasce?
Nasce da un’osservazione che mi accompagna da tempo: tutto il Novecento, e soprattutto la sua seconda parte, può essere letto come una lunga nota a piè di pagina sul rapporto tra arte e marketing. Lo vedi nella costruzione della figura pubblica dell’artista, nelle forme di circolazione delle opere, nei dispositivi di racconto che le accompagnano; e, se vogliamo scendere al livello più banale, lo vedi persino nella lingua – market contiene art, e in marketing le lettere A-R-T stanno lì a ricordarci una prossimità che non è affatto un’invenzione di oggi. Dentro questo quadro si colloca la mia pratica: da anni penso la carriera come meta-opera, nel senso che i singoli pezzi – scritte, azioni, meme, oggetti – sono tasselli di un mosaico più ampio. Non è un’intuizione solitaria: già Dalí, Picasso o Pollock hanno costruito mitologie personali che debordano dal manufatto; poi Koons, Hirst, Cattelan, Abramović portano quella dinamica alle estreme conseguenze. Questa serie di accostamenti fra opere e marchi serve a rendere visibile dove oggi questa relazione affiora con più evidenza; è uno strumento iconografico, a tratti iconoclasta, che mette alla prova il nostro modo di guardare.

Come hai scelto le associazioni tra opere e marchi?
Alterno accostamenti che si leggono subito ad altri in cui mi interessa rintracciare, quasi in senso iconografico (a tratti iconoclastico), i punti in cui il flirt tra arte e marketing emerge smaccatamente e spesso senza intenzione degli autori. Ci sono casi in cui, onestamente, dubito che ci fosse qualsiasi volontà in tal senso, e altri più articolati e complessi. Penso al lavoro di Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea (2007): una scala d’imbarco ferma nel nulla, persone in attesa sulla pista, nessun aereo, un chi;aro riferimento alle politiche migratorie: l’immagine dell’attesa senza destinazione e dello status sospeso. Il rimando a una compagnia low-cost non “trasforma in spot” quel lavoro: mette in chiaro quanto la grammatica pubblicitaria oggi tenda a stendersi su tutto. Lo vivo anche come un “tradire omaggiando”: l’artista butta il lavoro nel mondo, poi il lavoro diventa affare del pubblico; io me ne approprio in modo, spero, genuino e onesto per farne materia mia. Su Abramović, invece, ci torno spesso perché è un mio cavallo di battaglia: non è un bersaglio, è un caso di studio. I suoi formati — lo sguardo, la resistenza, il cammino — si prestano bene a mostrare come leggiamo oggi le immagini, spesso con un vocabolario diventato comune e che può, inevitabilmente, piegarsi a una logica anche commerciale.

Restiamo su un tema che abbiamo trattato di recente anche sulle nostre pagine: i vasi di Ai Weiwei con lo swoosh Nike rovesciato. Lì ricordavo — con Naomi Klein — che il logo, anche se lo capovolgi o lo prendi in giro, tende sempre a uscirne vincitore. Dentro questa tua “campagna” cosa succede quando il marchio entra nell’opera? E, già che ci siamo, ti chiedo anche come mai Ai Weiwei non è entrato nella serie.
Non vivo il potere del brand come una rivelazione, ma come una condizione del presente: il logo, certo, ha la capacità di assorbire anche la critica e ripresentarsi comunque come cifra di lettura per ogni aspetto del mondo contemporaneo, tanto piàìù per l’arte. Il mio registro è quello del caricaturista: prendo un tratto — la sovrapposizione fra immagine e marchio — e lo porto fino all’evidenza, senza moralismi. In questa serie si vede bene: l’accostamento non “vince” sul brand, fa vedere il meccanismo. E su Ai Weiwei, ti dico una cosa adesso, mentre ne parliamo: mi viene in mente un contraccolpo molto semplice e coerente con la logica del progetto. Prendere il suo vaso Coca-Cola e farci dialogare il marchio Pepsi: non come frecciatina, ma come esplicitazione di quella pubblicità comparativa che altrove è normale e da noi no. È un piccolo rovesciamento del rovesciamento. Lo realizzo subito e lo “regalo” a te e alla rivista come ricordo di questa conversazione.

Tu sei stato uno dei primi a usare il linguaggio dei meme, un linguaggio nuovo e del tutto contemporaneo, come linguaggio artistico. Da dove nasce questa tua intuizione?
Direi che non sono “il primo” in assoluto; sul terreno italiano, e specificamente sul sistema dell’arte in Italia, sì, mi prendo la responsabilità di averci lavorato per primo con continuità. L’intuizione nasce in modo molto pratico: esci dall’Accademia, hai un interesse forte per il dietro le quinte del contemporaneo (processi, ruoli, contraddizioni), ma non hai curriculum. Nel 2018 Instagram è al suo apice, il meme esce dai forum ed entra nei feed; mi guardo attorno come farebbe un artista che prende sul serio anche la dimensione “impresa” del proprio lavoro e vedo una nicchia scoperta: raccontare in italiano il sistema con il formato del meme. All’estero qualcosa c’era, qui no.
Da lì nasce Make Italian Art Great Again: un naming che è il détournement di un brand politico potentissimo, una partenza in anonimato per testare il campo, poi la crescita rapida e l’autorialità dichiarata. Non era la “pagina delle battute”: era – ed è – un canale di lavoro con cui comprimere in un’immagine ciò che altrimenti richiederebbe pagine di saggio, e farlo arrivare subito a chi nel sistema lavora. La pandemia ha consolidato la credibilità: non più solo barzellettiere, ma un artista che usa quel formato come parte della propria pratica. Oggi i social sono in calo, ma resistono: alterno inediti e cavalli di battaglia per tenere vivo il canale, perché – piaccia o no – la contemporaneità funziona così: se non pubblichi, scompari. Allora trasformo questa regola in materia di lavoro. Il meme non è un vezzo; è lo strumento più adatto a quella che per me è la vera opera, cioè la carriera nel suo farsi.
Restiamo sul mezzo: c’è chi dice che il meme è intrattenimento rapido. Per te quando “funziona” davvero come opera? E come lavori sul famoso “ovvio” che tu dici di cercare?
Funziona quando apre un tempo successivo. Se l’abbinamento si esaurisce nella battuta, non mi interessa. Cerco un ovvio che scatti subito — la riconoscibilità è parte del gioco — ma che non si esaurisca lì: che costringa chi guarda a rivedere l’opera e, insieme, il nostro modo di guardarla oggi. In quel secondo tempo sta il mio lavoro. Per arrivarci faccio un’operazione semplice: rintraccio dove il flirt tra arte e marca emerge smaccatamente, spesso senza intenzione di chi ha prodotto l’opera, e lo porto in chiaro. A volte basta un segno, altre volte serve che chi guarda attivi un minimo di memoria: ma la regola è la stessa, niente occhiolino fine a se stesso.
Parlando ancora del linguaggio che utilizzi, per molti “meme” è un’invenzione dell’era social; per te ha una storia che viene da più lontano?
Sì, direi che “meme” è l’etichetta nuova per una pratica antica. Prima del nome c’erano già i gesti: il dadaismo che taglia, incolla e ricombina ribaltando e sovvertendo i significati, il surrealismo che sposta le immagini di contesto per farle parlare in un altro modo, e poi il détournement di Debord, che prende materiale esistente e lo devia deliberatamente. Io faccio questo con gli strumenti del presente: telefono, feed, tempi di fruizione compressi. Non scelgo “la battuta” perché fa ridere; scelgo un dispositivo di spostamento e di ricontestualizzazione che storicamente conosciamo bene e che oggi, con i social, è diventato una lingua franca. In un’immagine posso comprimere pagine di discorso e farle viaggiare alla velocità con cui il nostro ambiente si informa: se poi quell’immagine apre un secondo tempo nella testa di chi guarda, vuol dire che ha funzionato.

E in Italia? Più volte hai citato il “concettualismo ironico” come linea a cui ti senti vicino. In che senso ti riguarda?
Mi riguarda come metodo e come orizzonte critico. In quella pagina – che da noi è stata trattata con troppa fretta e spesso riconosciuta meglio fuori che in casa, tant’è che ha esordito e ha avuto il suo primo grande successo in Germania – c’è un modo lucidissimo di prendere il sistema dell’arte come oggetto e di lavorarlo con leggerezza senza perdere precisione. L’ironia non è un trucco stilistico: è un modo di pensare che sposta di poco e, proprio in quel piccolo spostamento, fa emergere l’ossatura. Io mi muovo lì: non faccio la predica, non pretendo di “correggere” il sistema: lo mostro, lo metto a nudo. È la posizione del caricaturista (o del giullare di corte) più che del moralista: prendo un tratto già visibile, lo porto all’iperbole, lo metto tra virgolette. E questa, per me, è la continuità più onesta con quella tradizione.
Cosa vuole dire che ti consideri “caricaturista” più che “moralista”?
Significa che non cerco la denuncia come strumento correttivo. Non mi interessa “raddrizzare” il sistema: mi interessa mostrarlo, metterlo in scena e metterlo a nudo. La caricatura, per me, è prendere un tratto già visibile e portarlo all’iperbole finché diventa leggibile per tutti. È una tradizione antica — da noi diremmo il giullare di corte, appunto — che può permettersi di dire che il re è nudo proprio perché sta dentro la corte. I miei accostamenti funzionano così: non emettono sentenze, mettono tra virgolette.

C’è anche un dettaglio visivo che ritorna: quella collocazione del marchio in basso a destra, dove tradizionalmente sta una firma. È un riflesso o una scelta?
È un riflesso che è diventato consapevole. Inizialmente è stata quasi una questione compositiva: il marchio lì “tiene” l’immagine. Poi, rivedendo la serie, ho capito che quella posizione chiama un codice antico. Mettere il logo dove starebbe la firma rende visibile uno spostamento che nel presente è già avvenuto: ciò che un tempo garantiva autorialità oggi coincide sempre di più con l’identità visiva e con la sua circolazione. Non è un teorema, né una tesi gridata: è un segno minimo che dice che la firma si è fatta marchio, e che dentro quel marchio non c’è solo l’opera ma la carriera che la contiene, la sua posizione nel mondo, la rete di rimandi che la fa esistere. A volte, proprio per sottrarmi alla meccanicità del gesto, sposto il logo altrove; ma quel basso a destra resta un luogo eloquente per mettere a fuoco la trasformazione senza doverla spiegare.
E dopo la scintilla iniziale del riconoscimento, che cosa vorresti restasse a chi guarda?
Che quell’“ovvio” non si consumi nel primo sorriso, ma apra un secondo tempo: rivedere come guardiamo. Non solo la coppia riuscita, ma il meccanismo che la rende evidente: il modo in cui le immagini oggi portano con sé la grammatica del consumo, il ruolo dell’artista come identità che si costruisce nel tempo, l’idea di carriera come meta-opera che tiene insieme pezzi diversi. Se, passata la battuta, resta la sensazione di aver visto una frizione e non solo uno spiritoso accostamento, per me il lavoro ha funzionato. Il resto — etichette, definizioni, certificazioni — lo lascio volentieri agli altri: io tengo fermo il fare.

Per finire: che cosa vedi come prossima tappa del tuo lavoro?
Vorrei portare questo dispositivo dal feed al vivo. La forma che ho in mente la chiamo senza giri di parole stand-up comedy. Non perché mi interessi “fare il comico”, ma perché quel formato — scrittura, ritmo, presenza — è la prosecuzione naturale del mio metodo. Il meme comprime un’idea in un’immagine e la fa viaggiare; la stand-up comprime nel tempo: stesso principio di spostamento e ricontestualizzazione, ma con il corpo e la voce al posto dell’immagine sui social. Niente talk con slide: al massimo qualche immagine entra ed esce, però il centro è la presenza, il timing, l’errore come materiale. Mi interessa l’inaspettato: invece della “mostra di scritte”, un palco e un microfono; il repertorio — opere, sistema, cliché, i nostri tic — lavorato in diretta, chiedendo allo spettatore quel secondo tempo subito, lì, senza scrolling. È anche una piccola prova di resistenza: tenere il filo per una o due ore e mostrare il meccanismo senza la protezione dell’editing. In fondo è la stessa figura che rivendico da sempre: il giullare che sta dentro la corte e, proprio per questo, può permettersi di dire che il re è nudo — stavolta dal vivo.


