Di fronte alla tragedia umanitaria che sta scuotendo Gaza e lo Stato di Palestina, parlare di archeologia può sembrare quantomeno ridicolo. Sotto i colpi e le macerie rimangono e si spezzano storie e vite umane: come può essere importante registrare la distruzione di collezioni archeologiche e patrimonio culturale?
Effettivamente, nella mole di tragiche notizie che ogni giorno giunge da quell’angolo di mondo, si fa fatica a trovare menzione degli inevitabili danni che sta subendo il prezioso e cospicuo patrimonio culturale. Si fa fatica persino a trovare chi ne voglia o ne possa parlare.
Negli ultimi giorni, però, sono arrivate notizie anche in merito e – purtroppo – non sono positive. L’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme, il più antico centro di ricerca di studi biblici e archeologici della Terra Santa, ha reso noto che nell’ultima offensiva l’Idf ha colpito duramente l’edificio che ospitava la più grande collezione archeologica della Striscia di Gaza.
Già mercoledì 10 settembre – in realtà – l’École aveva dato l’allarme circa la volontà dell’esercito israeliano di distruggere l’edificio. Quest’allarme non era caduto nel vuoto e nel fine settimana gruppi di archeologi palestinesi e dell’École, con il limitato sostegno del governo francese e dell’UNESCO, ma guidati sapientemente a distanza da esperti come Fadel al-Otol, che ormai da tempo ha trovato rifugio in Svizzera, ma che ha dedicato una vita allo studio e alla salvaguardia del patrimonio archeologico della Striscia, avevano tentato di portare in salvo quantomeno i reperti di maggior importanza della collezione, spostandoli in una chiesa di Gaza City, nel tentativo (speriamo non vano) di sottrarli ai bombardamenti dell’Idf. Sulla quantità di reperti tratti in salvo giungono notizie contrastanti: sebbene la testata giornalistica israeliana Haaretz abbia precisato che la maggior parte dei pezzi non è stata trasferita, temendo – dunque – danni ingenti, gli archeologi dell’EBAF, pur ammettendo la necessità di compiere scelte sofferte, hanno affermato di aver portato in salvo la buona parte degli oggetti, per lo più ceramica, mosaici, oggetti in metallo e resti ossei, provenienti da almeno cinque siti archeologici della Striscia.
Diversi organismi internazionali – negli scorsi mesi – hanno cercato di lanciare l’allarme sul rischio di distruzione del patrimonio culturale conservato nella striscia di Gaza: ad aprile, ad esempio, in occasione della Giornata Internazionale dei Monumenti e dei Siti, l’ICOMOS ha ospitato una conferenza dell’architetto palestinese Muneer Elbaz, che ha avuto per tema proprio il disperato tentativo di preservare il patrimonio della città vecchia di Gaza.
Dall’inizio dell’offensiva israeliana nella Striscia, l’UNESCO ha confermato la distruzione di 94 siti archeologici e il danneggiamento di almeno 110 siti di interesse religioso, storico e culturale. L’iconico minareto della Grande Moschea Omari, la Grande Moschea di Gaza, è stato colpito e severamente danneggiato, poiché presunto luogo di accesso a uno dei fantomatici tunnel sotterranei usati da Hamas come nascondiglio. Stessa sorte è toccata a Qasr-al Basha, uno dei palazzi rappresentativi della secolare storia di Gaza, e ultima sede del museo archeologico, al Souq al-Qissariya, il mercato orafo di epoca medievale, al tradizionale hammam di al-Samra, alla chiesa bizantina di Jabalia e a tanti altri. Tutti bombardati per la medesima motivazione: obiettivi militari.
La realtà delle cose è che la distruzione del patrimonio culturale non è un dato da tralasciare, trascurare o relegare in secondo piano nella lista delle nefandezze di cui l’uomo si macchia quando decide di distruggere i suoi simili. In primo luogo, per una motivazione reale e tangibile: la distruzione del patrimonio culturale è un crimine che viola la Convenzione dell’Aia del 1954, quel trattato internazionale adottato ormai da 132 Paesi nel mondo – Israele compreso – e voluto proprio per proteggere i beni culturali in caso di conflitto armato. Violare tale Convenzione significa dover necessariamente passare dal giudizio della Corte Penale Internazionale (qualora il paese interessato non voglia o non possa garantire un’azione giuridica effettiva), giudizio che negli anni non ha esitato a comminare pene anche severe e a riconoscere responsabilità e colpe.
In secondo luogo, riallacciandosi proprio a un passaggio cruciale della Convenzione, perché i beni culturali (definizione che per la prima volta compare proprio in questo trattato) sono di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli. La cultura rappresenta l’elemento che sopravvive alla vita umana e la distruzione dei suoi elementi tangibili e rappresentativi non è mai fine a sé stessa. Marca sempre la volontà di espiantare le radici di un gruppo umano, di cancellarne storia e tradizioni, di eliminarne il passato, ma anche e soprattutto il futuro. Infatti, le case si possono ricostruire, le colture ripiantare. La vita stessa può essere ricreata. Ma senza una cultura, senza una memoria, senza una storia a unire e a dare consapevolezza e coscienza collettiva cosa rimane? Da dove si riparte?
Soprattutto per questo tutelare e conservare il patrimonio culturale è importante. Soprattutto per questo parlare della sua perdita durante le tragedie umanitarie è importante.
Dovremmo ricordarcene tutte e tutti un po’ più spesso.


