Franco Perrotti. “When I Was a Designer”: il confine sottile tra progetto, memoria e libertà alla Fabbrica del Vapore

C’è una soglia sottile tra il progettare e il raccontare, tra il gesto del fare e la necessità di capire perché si fa. When I Was a Designer, la grande antologica che la Fabbrica del Vapore dedica a Franco Perrotti, fino al 23 ottobre, attraversa proprio quella soglia. È un viaggio nella memoria e nell’identità di un autore che, dopo quasi cinquant’anni di ricerca, torna a Milano — là dove tutto è cominciato — per restituire un racconto fatto di oggetti, materiali e visioni.

Curata da Fortunato D’Amico, la mostra si distende in oltre 1100 metri quadrati come un archivio emotivo: non una semplice retrospettiva, ma una mappa sentimentale che intreccia design e arte, industria e artigianato, rigore e libertà. Le sei “stazioni” che compongono il percorso ripercorrono la traiettoria di un pensiero che non si è mai lasciato addomesticare: da Tecno a Poltrona Frau, da Moroso a Faram e Airon, fino alla stagione radicale di Rude Bravo, quando Perrotti sceglie di lasciare Milano per tornare in Abruzzo e misurarsi con un contesto più ruvido, più vero, più resistente.

È lì che il design diventa per lui un atto di consapevolezza, un modo per interrogare il mondo più che per abbellirlo. E forse è da quella tensione che nasce la necessità di superarlo: di guardare oltre l’oggetto, oltre la forma. Lo dimostrano le opere più recenti — come il monumentale Dissuader, un piccione totemico in acciaio e resina — che ribaltano il linguaggio del progetto in gesto artistico, in riflessione politica, in allegoria dell’esistenza.

Franco Perrotti Installation view

Visitando la mostra si ha la sensazione che Perrotti non abbia mai smesso di essere designer, ma che abbia soltanto spostato il baricentro del suo sguardo: dal prodotto alla persona, dal fare al sentire. È in questo equilibrio instabile che nasce il suo dialogo più intimo con sé stesso — quello che abbiamo voluto raccogliere in un’intervista che accompagna la mostra e ne svela le radici più profonde.

Nel titolo della mostra c’è un “quando” che sembra segnare un distacco. Significa che oggi il design non ti appartiene più, o che il design stesso, per come si è trasformato, non merita più questo nome?

Beh, direi che il titolo è azzeccato proprio perché parla di me al passato, ma non in senso nostalgico. Racconta un percorso. Io non ho “abbandonato” il design: l’ho vissuto fino in fondo e poi ho sentito il bisogno di misurarmi con altro. È come se avessi fatto trent’anni di scuola: dal design di prodotto alla produzione industriale, poi all’interior design, fino a spingermi verso una dimensione più personale.
Il punto è che fare design a Milano, dove hai tutto l’indotto e la filiera a portata di mano, è una cosa. Farlo in Abruzzo, dove magari il ferramenta non ha nemmeno il materiale che ti serve, è un’altra. Io volevo capire se il mio design esisteva davvero o se era figlio del contesto. Andando via da Milano, ho capito che il design era dentro di me, non nel posto in cui mi trovavo.

Franco Perrotti Installation view

Hai raccontato che in Tecno hai imparato la differenza tra avere un’idea e saperla realizzare. Oggi il design sembra più legato al marketing che al fare. Credi che si sia perso quel legame tra pensiero e mano, tra progetto e materia?

Sì, oggi spesso il design nasce più dal marketing che dal laboratorio. Io ho avuto la fortuna di formarmi in anni in cui c’era ancora il contatto diretto con chi costruiva: il fabbro, il tappezziere, il falegname. Alla Scuola Politecnica di Design, con maestri come Munari e Marcolli, ti mettevano subito “in riga” — ti insegnavano che il progetto non è solo nella testa, ma nel modo in cui lo realizzi.
In Tecno ho capito che una cosa è avere un’idea e un’altra è portarla a compimento. È lì che ho imparato cosa significa fare davvero: capire i materiali, i tempi, la fatica. Oggi vedo molta immagine, molto racconto, ma pochi contenuti. Per me invece è sempre stato più importante il contenuto che il contenitore.


Rude Bravo è stato un laboratorio di resistenza creativa: un’esperienza radicale nata dal bisogno di fare design fuori dai centri del potere. Guardando ai giovani di oggi, trovi eredi di quella stessa spinta visionaria o più conformismo travestito da sperimentazione?

Con Rude Bravo, insieme a Tanino Liberatore e Mario Mariano, abbiamo deciso di lasciare Milano e Parigi per tornare in Abruzzo. Non era una fuga: era una sfida. Volevamo vedere se si poteva fare design anche in un posto dove nessuno sapeva nemmeno cosa fosse. E non è stato facile: lì si fanno mozzarelle, vino, olio… ma il design è un’altra storia.
Quel periodo mi ha insegnato tanto. Ho cominciato a lavorare in autonomia, senza committenti, e ho capito che avevo bisogno di dare voce ai contenuti, non alle forme. Oggi vedo tanti giovani con idee belle e sincere, spesso legate alla sostenibilità, alla natura, alla società. C’è speranza, sì — ma restano esperienze “minori”, ai margini. Sarebbe bello se le aziende avessero il coraggio di investire su queste realtà invece di omologarsi al mercato.

Franco Perrotti Installation view


Il “Dissuader” è una metafora potente, quasi disturbante. Hai detto che ci hai lavorato per sei anni e che non è solo un’opera ma una presa di posizione. È come se dicessi che il design non basta più e che serve un linguaggio più diretto, più scomodo. È così?

Sì, è vero. Il “Dissuader” nasce proprio da lì. Ho potuto farlo perché conosco il mestiere — so come si costruisce un oggetto, come si gestisce un progetto — ma il motivo per cui l’ho fatto è un altro. È un lavoro che parla dei confini, dei borders, di quello che succede alle persone che li attraversano.
Forse è l’età, non so, ma oggi mi commuovo con facilità davanti a certe ingiustizie. Vedere città distrutte in pochi mesi, popoli spostati come nulla fosse… per me è insopportabile. E allora sì, c’è politica in quello che faccio. Se non vogliamo chiamarla politica, chiamiamola punto di vista — ma dev’essere autentico, non deciso dai critici. Il “Dissuader” è il mio modo di dire: io prendo posizione. Il design mi ha dato gli strumenti, ma oggi ho bisogno dell’arte per dire di più.

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