Che cos’è una famiglia, se non un teatro in cui le parole spesso falliscono, in cui i gesti si caricano di un peso che non intendono portare? Jim Jarmusch, con il suo Father Mother Sister Brother, porta sullo schermo la cronaca di tre vicende domestiche, l’ossessione universale per i legami che definiscono – e imprigionano – la nostra identità.
Presentato in concorso all’82ª Mostra del Cinema di Venezia e vincitore del Leone d’oro, il film si offre come un trittico intimo e dissonante, una sinfonia che racconta la parentela attraverso l’attrito. Il punto di partenza è semplice: tre storie, tre famiglie, tre città. Una storia che non è mai lineare, mai rassicurante. Lo spazio familiare, nel suo cinema, non è mai neutro: è un campo minato, un luogo saturo di ricordi e di menzogne, un museo vivente di tensioni irrisolte. In queste stanze, persino un gesto minimo – un coltello appoggiato, un bicchiere d’acqua sorseggiato senza desiderio – diventa rivelazione di un abisso.

Nel primo segmento, ambientato negli Stati Uniti, la figura paterna appare come un pianeta distante, irraggiungibile. È un corpo che pesa, un enigma che non ammette risoluzione. Non ci sono carezze, non ci sono spiegazioni: solo una distanza siderale che rende ogni scambio goffo, artificiale, persino ridicolo. Nel secondo, ambientato a Dublino, la madre interpretata da Charlotte Rampling diventa il cuore di una cerimonia glaciale, un rito familiare che si ripete come un obbligo sociale. È qui che il film si fa più crudele, più corrosivo: non c’è odio esplicito, ma c’è un’insofferenza che trapela da ogni sguardo, da ogni pausa imbarazzata. Infine, nell’episodio parigino, il film si trasforma. Non c’è più la ripetizione dei gesti ma la nudità di un’assenza definitiva. Due fratelli attraversano la casa dei genitori come se stessero esplorando le rovine di un tempio, cercando di fare i conti con il fatto che l’essere figli è una condizione che ha una fine.
L’intero film potrebbe essere letto come un manuale di incomunicabilità. Jarmusch non crede al dialogo come strumento di rivelazione. Le sue conversazioni sono tronche, ripetitive, insignificanti: e proprio per questo risultano verissime. Perché la maggior parte delle parole che scambiamo con i nostri familiari non ha il peso della rivelazione, ma quello della sopravvivenza. Sono frasi rituali, frasi di circostanza, frasi che evitano il baratro più che affrontarlo. Il cinema di Jarmusch intercetta questa banalità e la trasforma in sostanza poetica.
Father mother sister brother è una commedia malinconica, sospesa tra il sarcasmo e la tenerezza. Ci si trova a ridere delle rigidità familiari, delle posture imbarazzate, delle convenzioni che tutti, in fondo, conosciamo. Si ride con un groppo in gola, perché sappiamo che dietro quell’assurdo c’è una verità che ci riguarda da vicino.

È l’ultimo episodio, quello parigino, a imprimere nel film il suo volto più fragile. Quando i genitori non ci sono più, che cosa resta di noi come figli? Cosa significa abitare uno spazio che porta il segno della nostra infanzia, quando non vi è più nessuno ad accreditarci come figli? Jarmusch ci mostra due fratelli che percorrono le stanze vuote e in quel gesto c’è tutta la metafisica della parentela: la casa come guscio che non protegge più, come memoria che diventa ingombro. È un momento struggente, ma anche liberatorio. Nel vuoto lasciato dall’assenza, si apre lo spazio dell’immaginazione.
L’opera diventa così un invito per lo spettatore di riconsiderare le proprie geografie affettive, interrogarsi sulla natura dei propri legami, accettare che l’essere figli e genitori non è un ruolo immutabile, ma un passaggio, un processo. Father Mother Sister Brother è un dispositivo che ci costringe a guardare dentro le nostre storie familiari. Nel suo umorismo sottile, nella sua malinconia trattenuta, nella sua lucidità chirurgica, Jarmusch firma una delle sue opere più mature, più coraggiose, più necessarie.



