Un ponte invisibile ma dalle solide fondamenta unisce l’immaginario eclettico e sognante dei Nabis, perennemente sospeso tra antiche profezie e moderni componimenti poetici, la struggente malinconia della pittura romantica, e l’inesauribile fantasia surrealista costruttrice di mitologie nuove tratte direttamente dall’onirico. Questa passerella è racchiusa nell’immensa produzione di Eugene Berman (San Pietroburgo, 1899 – Roma, 1972), pittore russo di nascita ma europeo di formazione che rappresenta un unicum nella cultura novecentesca.
La mostra «Eugene Berman – Modern Classic», inaugurata lo scorso sabato al Mart di Rovereto e visibile fino al 1° marzo 2026, intende non solo omaggiare l’artista, ma esplorarne il mondo interiore e la poetica densa di colti riferimenti. Pittore, scenografo, fotografo e, crucialmente, collezionista, Berman agì come un fondamentale crocevia tra correnti eppure si distinse per uno stile unico, inimitabile. L’esposizione, da un’idea di Vittorio Sgarbi a cura di Sara De Angelis, Denis Isaia, Peter Benson Miller e Ilaria Schiaffini, presenta oltre 200 opere tra tele, carte, documenti e, soprattutto, una significativa selezione della sua straordinaria collezione di antichità, offrendo finalmente un tributo a una figura complessa che trovò nell’Italia la sua patria spirituale e sentimentale dopo un’intricata vita da esule.
La traiettoria artistica di Berman è definita da una straordinaria fluidità tra movimenti. Intraprende da prima gli studi presso l’Académie Ranson, istituzione parigina di matrice Nabis, dove apprende la sensibilità per la sintesi decorativa e il linguaggio fortemente simbolico che lo prepararono ad essere uno degli esponenti principali dei Neoromantici. Termine coniato dal critico Waldemar George, nel febbraio del 1926, per descrivere e recensire una mostra tenutasi alla Galerie Druet di Parigi, dove esposero alcuni giovani artisti destinati a nutrire la corrente: Eugène Berman, Léonide Berman (fratello di Eugène), Pavel Tchelitchew, Christian Bérard, Kristians Tonny e Thérèse Debains. Il gruppo propose una variante sentimentale del Surrealismo, mantenendo un forte legame con la figurazione, legata all’esperienza metafisica, e intrisa di una malinconia e di un’inquietudine, tipiche del Romanticismo italiano e tedesco.
Il linguaggio di Berman, pur attingendo dall’atmosfera metafisica evocata da Giorgio de Chirico, è intrinsecamente più emotivo e personale. Nelle sue tele non esiste il distacco analitico dell’artista italiano, anzi in esse scorciamo figure popolari, religiose o allegoriche abitare architetture immaginarie, ricche di simbolismo, spesso frutto di una sintesi tra stili e riferimenti diversi che creano scenari avvolti dal mistero. Berman è un crocevia di poetiche capace di dialogare sia con gli artisti del passato che con i coevi come Leonor Fini e Fabrizio Clerici, e di attraversare l’Atlantico spinto dal dilagare della guerra trovando nella figura del mercante d’arte Julien Levy un supporto per promuovere la sua opera negli Stati Uniti. A testimonianza delle profonde relazioni instaurate con questi personaggi troviamo un meraviglioso «Ritratto di Fabrizio Clerici», realizzato dall’artista nel 1950.

In parallelo all’attività pittorica, Berman porta avanti la pratica teatrale come scenografo e costumista che sarà un capitolo fondamentale della sua produzione. Fin dalla metà degli anni Trenta, egli riversò la sua passione per l’architettura classica e per le atmosfere oniriche nella creazione di fondali per il balletto e l’opera, spesso in collaborazione con maestri del calibro di George Balanchine e del connazionale Igor Stravinskij.
Il palcoscenico divenne il luogo ideale per tradurre le sue architetture immaginarie in ambientazioni concrete. Le rovine, i capricci architettonici e le prospettive surreali che animano i suoi dipinti prendono forma in scenografie che amplificano l’emozione, rafforzano la recitazione racchiudendo così l’essenza dei drammi teatrali. Non stupisce quindi che la vera svolta nella produzione bermaniana possa essere identificata nell’incontro con l’Italia, prima sognata, letta, ed ora finalmente osservata con i suoi stessi occhi in un primo soggiorno del 1922, durante cui si dedicò allo studio appassionato della tradizione pittorica rinascimentale, ritrovando nella chiara composizione e costruzione delle figure di Piero della Francesca, così come nella disegno fiero a tratti incisorio di artisti come Andrea Mantegna, delle indicazioni formali. Il suo taccuino era il deposito di un Grand Tour illimitato: emblematica è l’ispirazione tratta dalle memorie della Villa Adriana a Tivoli e dalle rovine di Palestrina, che si trasformavano sulla tela in città ideali e paesaggi archeologici intrisi di ardore poetico.

Questi studi non si limiteranno all’arte italiana. L’artista, viaggiatore instancabile, riversa nelle sue opere l’eco delle civiltà lontane, incontrate nei suoi viaggi in Egitto e in Libia, nell’antica città di Leptis Magna. Nei suoi lavori tardi, il paesaggio archeologico spazia da Palestrina, alle grandiose architetture di ispirazione egizia dove assistiamo al protagonismo delle spingi, delle piramide e dei complessi funerari allestiti per i faraoni, con ciclopici sarcofagi, elementi che evocano un senso di solenne e universale decadenza. Passiamo dalle rievocazioni delle affascinanti quanto grottesche decorazioni manieriste del Palazzo del Diavolo di Federico Zuccari, tinte di un rosso quasi pompeiano nell’immaginario di Berman, alle tonalità terrose, ocra e ai cieli velati scelti per le ambientazioni desertiche di «The Sleep of Stone» (1965). Colori che attribuiscono alle scene l’aspetto di visioni sospese nelle maglie del tempo. Quasi a prefigurare le ultime tele dal sapore mitologico, a tratti bucolico, che tornano a raffigurare i paesaggi italiani del sud avvolti da un pulviscolo luminoso di polvere e memoria.
Opere che rappresentano i personaggi sdraiati o di spalle, quasi a voler nascondere la loro identità, perché essi siano figure universali tratte dal mito o dalle bucoliche. Soggetti al di là del tempo e della storia. Così avviene nei dipinti «La medusa al tramonto» e «Siciliana» datati agli ultimi due anni di vita dell’artista. A perfetta conclusione della mostra troviamo uno spazio dedicato all’anima collezionista del pittore russo, elemento forse più rilevante del suo legame con il territorio nostrano. Dopo una vita di continui spostamenti, si stabilì definitivamente a Roma nel 1957. Sentendosi finalmente «romano, veneziano o anche napoletano», lasciò alla sua morte una straordinaria raccolta di quasi 3000 reperti archeologici alla Repubblica Italiana. Qui i reperti escono dalla pittura, si fanno presenze reali, testimonianze della sua incessante ricerca di un dialogo con l’antichità. Tra i beni esposti figurano vasi greci, maschere teatrali e persino la copertura di un sarcofago etrusco.

Il tutto culmina in una toccante composizione fedele al reale arredamento dell’abitazione romana di Berman, quasi un altare laico dedicata alla tradizione artistica: ai lati, raffigurazioni di maschere e teste con varie espressioni richiamano la sua attività teatrale e la varietà dei sentimenti umani; al centro, spicca una Madonna lignea che richiama la dolcezza della prima scultura quattrocentesca. Sopra alla delicata effige, è sospeso un uovo di struzzo, chiaro riferimento all’iconografia sacra rinascimentale, in particolare alla celeberrima Pala di Brera firmata Piero della Francesca. Questa eruditissima giustapposizione riassume magnificamente il concetto di Modern Classic: un’artista che, tramite l’accumulo, il disegno, lo studio e la contemplazione, imbastisce il proprio personale lignaggio spirituale, mescolando la devozione per l’antico con l’ansia creativa e la pulsante energia del proprio presente.


