Etimologia di un’illusione: perché “intelligenza artificiale” dice molto più di quel che pensiamo

Intelligenza + artificiale: due termini che oggi dominano il discorso pubblico e che portano con sé un alone di complessità, possibilità e perfino timore verso futuri distopici, spesso evocati senza che ci si soffermi davvero sul loro significato profondo. Dietro queste parole, che oggi sembrano appartenere esclusivamente al lessico della tecnologia, si nasconde in realtà una lunga storia che parla di ciò che l’essere umano è, di ciò che desidera diventare e dei limiti che cerca costantemente di superare. 

Il termine “intelligenza” infatti deriva dal latino intelligere, ossia “leggere tra le righe”; non indica la capacità di calcolo veloce né l’elaborazione di grandi quantità di dati, ma la facoltà di cogliere connessioni invisibili, di comprendere ciò che non appare in superficie, di esercitare discernimento, che è alla base del pensiero autonomo e del libero arbitrio

Anche la parola “artificiale” ha radici antiche: nasce dal latino artificialis, da ars e facere, e indica qualcosa che è realizzato con arte, con consapevolezza, senza legami con l’idea moderna di imitazione o falsificazione, ma piuttosto come espressione della capacità umana di trasformare il mondo circostante per renderlo abitabile e comprensibile

In questa prospettiva, l’intelligenza artificiale non è soltanto un insieme di strumenti o algoritmi, ma una forma di estensione delle facoltà cognitive, un tentativo di ampliare il nostro sguardo e la nostra capacità di comprendere e agire nel mondo. Fin dall’inizio della nostra storia, ogni acquisizione di conoscenza si accompagna a trasformazioni profonde: già nel racconto della Genesi, Adamo ed Eva, dopo aver mangiato il frutto proibito, scoprono la propria nudità e intrecciano foglie per coprirsi, compiendo così il primo gesto tecnico, un artificio nato dalla consapevolezza della vulnerabilità. 

Ogni nuova invenzione ripropone questa dinamica in cui la tecnica diventa il modo attraverso cui l’uomo cerca di proteggersi dalle proprie fragilità e allo stesso tempo ridefinisce il proprio rapporto con i limiti. Günther Anders descrive questa condizione parlando di “vergogna prometeica”, quella sensazione di disagio che proviamo davanti alle nostre creazioni quando sembrano superarci, poiché le macchine elaborano informazioni e risolvono problemi con una precisione e una rapidità che sfuggono alle nostre capacità, alimentando sia il timore di essere superati sia la spinta a proseguire nello sviluppo.

In questa tensione si colloca la riflessione di Bernard Stiegler, che definisce la tecnica come pharmakon, insieme cura e rischio, in quanto ogni avanzamento, compresa l’intelligenza artificiale, non si limita a migliorare l’efficienza operativa, ma rappresenta un nuovo tentativo di estendere le capacità di pensiero e di creazione oltre i confini naturali. L’intelligenza artificiale, può essere vista come “un’opera d’arte”, un progetto ambizioso che riflette le nostre aspirazioni, le nostre paure e la nostra incessante ricerca di significato. Come nella Genesi dunque, il quesito non riguarda la possibilità del “fare” ma la nostra volontà di conoscere i nostri limiti come umani, di guardarci “nudi”, per evolverci – o involverci – in qualcosa che ci è, oggi, ancora sconosciuto.

1 commento

  1. È incredibile come in pochi paragrafi l’autore sia riuscito a trasmettere messaggi di una profondità per niente invidiabile a saggi di tecnoestetica. Tutto ciò con un lessico aperto a tutti. Che questo sia un primo passo verso la presa di consapevolezza che il genere umano è di già immerso in una nuova era in cui la modalità di evoluzione è sottoposta al nostro libero arbitrio. Davvero complimenti!

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