Cosa resta, quando tutto sembra andare in frantumi? Forse resta Elpìs — la speranza, ultima a uscire dal vaso di Pandora, prima a riaffiorare quando il buio sembra definitivo. È attorno a questo nucleo fragile e incandescente che si costruisce la mostra ELPÌS – Dove nasce la speranza, allestita dal 13 giugno al 30 settembre all’Università Cattolica di Milano. Un progetto collettivo, pensato da un gruppo di giovani curatrici dell’ateneo (Arianna Bono, Matilde Cauteruccio, Matilde Dante, Maria Laura Foti, Sara Ravelli, Alessandra Mara Sartori di Borgoricco e Melania Sisinno), che affidano al gesto artistico una domanda semplice e radicale: oggi, ha ancora senso parlare di speranza?

Il percorso si articola tra i chiostri e gli spazi comuni delle due sedi dell’Università, in Largo Gemelli e via Carducci, trasformando l’ateneo in una vera e propria “città invisibile” — un organismo vivo, attraversato da energie, sogni, dubbi, errori, slanci. Il riferimento, dichiarato, è a Le città invisibili di Italo Calvino: luoghi immaginari che non si visitano, si ascoltano. Così Elpìs diventa una città mentale, costruita tra pensiero e gesto concreto, tra desiderio e forma.
A incarnare questa visione è la scultura rarefatta e insieme radicata di Gianfranco Meggiato, artista veneziano la cui opera fonde spiritualità, tensione formale e metafisica della materia. Le sue introsculture, come le definisce, sono organismi aperti: non statue da contemplare, ma strutture porose che invitano a entrare, attraversare, toccare, abitare. Sette le opere installate nei due luoghi della mostra realizzate in alluminio verniciato di bianco, colore non-cromatico che rimanda alla trascendenza, alla possibilità, al non-ancora.
Meggiato, classe 1963, si definisce uno “scultore classico” ma il suo lavoro parte da tutt’altra parte. Le sue strutture astratte, biomorfe, spesso sferiche e filiformi, sembrano crescere come organismi o affiorare da una dimensione non visibile. “Non parto mai da un disegno”, ha spiegato l’artista in un’intervista, “modello direttamente la cera calda. Mi piace l’idea di andare a lavorare senza sapere cosa farò”. Le sue introsculture nascono così: da un gesto intuitivo e da una tensione interna tra pieno e vuoto, tra spazio e forma.

Il vuoto, per Meggiato, è un elemento costitutivo quanto il materiale. Non è assenza, ma passaggio. Non si tratta di osservare l’opera, ma di entrarci dentro, di lasciarsi attirare. In questo senso, l’arte per lui non è mai un oggetto concluso, ma una soglia. Una soglia anche tattile: tutte le opere esposte in Elpìs possono essere toccate, spostate, esplorate. L’interazione non è un dettaglio, è la regola del gioco.
I titoli delle sculture – Il Volo, Colpo d’Ala, Risveglio, Lo Specchio dell’Assoluto – raccontano un immaginario che si muove tra spiritualità laica e tensione etica. L’uso del bianco, in questa mostra, accentua la leggerezza e il carattere ascensionale delle forme. Nessun bronzo né patine dorate: solo alluminio verniciato, luminoso e neutro, come se lo scopo fosse restituire la scultura al suo scheletro concettuale. La forma è ridotta all’essenziale, ma non alla freddezza: ciò che rimane è l’energia del gesto.

Ma ELPÌS non è solo una mostra di scultura: è un progetto di partecipazione. La mostra è accompagnata da un programma di incontri, cineforum, letture, e da un invito aperto al pubblico a lasciare una testimonianza scritta. Ogni visitatore è infatti invitato a lasciare una traccia, un pensiero, un gesto. Tutto verrà raccolto in un volume finale, come mappa della speranza oggi. Nessun manifesto, solo appunti di viaggio.
Nel cuore della Cattolica, dunque, l’arte non viene esibita, ma attivata. Lo spettatore non è chiamato a giudicare, ma a partecipare. La speranza, se esiste, non è nel significato delle opere ma nel fatto stesso che queste possano ancora creare una relazione. In un tempo in cui anche l’arte rischia di diventare puro contenuto, Elpìs prova a rimettere in gioco il contatto, lo sguardo, il corpo, la relazione diretta tra artisti e spettatore.