Dario Ghibaudo, a Bruxelles le Mutazioni in eterno divenire del Museo di Storia Innaturale

La prima volta che mi capitò di vedere un’opera di Dario Ghibaudo fu a Milano, al Palazzo delle Stelline, in un’era che, d’istinto, non potrei altro che definire “geologica”. Doveva essere il 1995, e mi trovavo in visita a una mostra incentrata proprio sulla produzione recente dei “nuovi” artisti italiani, in un periodo in cui l’onda lunga del post-moderno aveva da poco aperto la strada a forme d’arte fluide, meticce, ironiche e giocose, in cui i ragionamenti sul futuro dell’arte e della società, le ibridazioni di materiali sempre più eterogenei, i rimescolamenti, che per l’epoca suonavano del tutto nuovi, tra citazioni tratte dalla cultura classica, dall’artigianato e dalla tradizione artistica e culturale italiana, con influssi dalla scienza e dalla fantascienza, dalle arti un tempo considerate “minori” come il cinema o il fumetto popolare, dalla letteratura, persino dalla cronaca nera, erano all’ordine del giorno. Quello che di lì a poco sarebbe stato il pane quotidiano per la maggior parte degli artisti (il rovesciamento delle gerarchie culturali, i mescolamenti tra linguaggi, l’ironia corrosiva che si prendeva gioco di ogni aspetto della nostra sempre più bizzarra quotidianità, che molto presto sarebbe stata definita “distopica”), all’epoca era ancora rubricato come “sperimentazione” di un pugno di artisti estremamente profetici e innovativi. E Dario Ghibaudo, per chiunque fosse in grado di vedere oltre il proprio naso, era indubbiamente uno di questi.

Lì infatti, a Palazzo delle Stelline, un po’ in alto su un muro, faceva mostra di sé uno strano personaggio che aveva qualcosa di inquietante e di misterioso, un’opera che attirò la mia attenzione come un colpo di fulmine: un Homo Pronto (questo il titolo), un umano, perfettamente riprodotto in scala 1:1, chiuso in una busta di plastica e relativa scatola gigante, con i suoi accessori, che ne certificavano lo scopo su questa terra. Non ricordo se quel primo personaggio (avrei imparato presto a conoscerli uno per uno) fosse il Giornalista, il Sicario, il Soldato, il Chirurgo, o l’Avvocato, o quale altro (ma nella serie comparivano anche la Suora, lo Scienziato e l’Infermiera). Sta di fatto che quell’uomo “pronto” e congelato, “Prodotto confezionato in atmosfera controllata”, come recitava una grande scritta sulla plastica che lo avvolgeva, che rappresentava, come avrebbe detto lo stesso artista, “l’interpretazione più cruda della parola Economia che si basa sulla mercificazione degli esseri umani, a qualsiasi categoria essi appartengano”, mi svelò per la prima volta un universo, anzi, il progetto di un universo in divenire, che ancora oggi, con una coerenza che raramente si ritrova tra gli artisti contemporanei, continua a distillare le sue preziose, straordinarie perle.

Il Museo di Storia Innaturale, metafora straniante del reale

Quel progetto era, ed è, il Museo di Storia Innaturale, progetto ambiziosissimo, senza fine, che non ad ogni mostra si amplia di una nuova sala, di un nuovo tassello per raccontare, con straordinaria perizia tecnica e una forza fantastica e immaginativa che nessuna Intelligenza Artificiale potrebbe mai replicare, l’intero scibile umano e naturale. Dalla Botanica Organica all’Etologia, dall’Antropologia culturale all’Etologia, dall’Anamorfosi alle Creature Meravigliose, dai Busti alle Pelli passando per Trofei, Diorami, Pesci e Anfibi ed Esemplari Rari, il Museo di Storia Innaturale è, da 25 anni a questa parte, una continua e inesauribile sorpresa, che ad ogni tappa si arricchisce di nuovi esseri mutanti, che appaiono allo stesso tempo classici e fantastici, immaginifici come i personaggi di una saga fantasy e allo stesso tempo eterni e “classici” come se fossero già stati musealizzati: fissati, come sono, nell’eternità dei materiali, delle forme e dei colori con cui siamo abituati a riconoscere capolavori e manufatti della storia dell’arte e della scienza – il bianco dei marmi attraverso cui abbiamo imparato a codificare il senso stesso della classicità, la levigatezza delle ceramiche delle formelle rinascimentali che hanno plasmato il nostro immaginario, le teche e i diorami dei vecchi musei di storia naturale in cui venivamo portati da bambini, e ancora i trofei e le pelli degli animali con cui i nostri trisavoli cacciatori imbandivano le sale, i busti in marmo con cui si celebravano i grandi personaggi della Storia. “Ghibaudo”, scriveva alcuni anni fa Achille Bonito Oliva, “attinge all’universo della natura, fatta di piccole presenze che hanno il carattere eroico e irripetibile dell’universo mitologico”: l’artista ci invita infatti, scrive il critico, “a entrare nella normalità estraniante del reale, ad approfondire tale condizione e a guardarla sempre più ad occhi aperti”, giacché “è la stessa realtà ad acquistare il senso di estraneità man mano che spalanchiamo il nostro sguardo meravigliato sul mondo”.

Tassonomia della mutazione

Oggi, a quasi trent’anni da quell’apparizione, il progetto del Museo di Storia Innaturale si arricchisce di una nuova tappa e un nuovo sviluppo nella mostra personale, significativamente intitolata “Mutazioni”, di Dario Ghibaudo aperta fino all’8 giugno all’Espace Constantin Chariot di Bruxelles (rue Pierre Decoster 110). Qui, un’ampia selezione di opere – circa una cinquantina tra creature meravigliose, incroci morfologici, sculture da viaggio, incredibili e bizzarrissime fisiologie di ibridi armonici e mutanti – rende plasticamente visibile una porzione, spettacolare nella sua variabilità, di quel mondo “altro”, parallelo, immaginario e immaginifico, di Ghibaudo, più che mai concreto e plastico nella sua qualità materica e narrativa. A guardare la ricca epifania di animali di cui lo spazio di Bruxelles è ricco di esemplari, viene infatti da chiedersi a che genere di realtà, a che genere di immaginario si riferisca l’artista per la creazione del suo universo fantastico, fatto di creature che si collocano in un punto imprecisato fra zoologia, genetica fantastica e parodia della tassonomia scientifica: mammiferi a sei, sette, otto zampe, quadrupedi dal collo ritorto, cetacei mammiferiformi, volatili dai piedi umani, antilopi dalla coda di pesci, marsupiali pinnati, esseri biformi e pluriformi; forse il risultato di bizzarre, insieme seducenti e altamente inquietanti, sperimentazioni biogenetiche, frutto del mescolamento tra specie differenti o di un’immaginazione sconfinata, che sembra guardare alla letteratura e ai film di fantascienza ma con più d’un occhio ai bestiari medioevali, ai sogni folli di qualche scienziato in preda ad allucinazioni e alla storia della scienza e della filosofia. Sono infatti esseri, quelli di Ghibaudo, che, pur nella loro apparente implausibilità, non possono non farci pensare alle infinite possibilità della biogenetica contemporanea, alle sperimentazioni sempre più avveniristiche della scienza, della biologia, della medicina e della tecnologia contemporanee.

Realtà o paradosso di un’umanità e di una scienza che si allontanano sempre più dalla natura, ma in cui ogni cosa, al contempo, diviene sempre più realizzabile e plausibile? Anche i titoli delle opere, del resto, come in un gioco di specchi dove nulla è reale e tutto appare verosimile, strizzano l’occhio alla catalogazione scientifica delle specie delle Enciclopedie e dei musei di storia di naturale: dalla Criatura et Eretctis Pedes al Nimis Longus Rostrum, dall’Antiolopes Octopedata all’Hippotragus Anteropostus Spinatus, dal Capronis Alatus cum Longa Cauda et Corni Spinusis all’Avis Nodatus, al Sex Pedibus Animalis Caudam Pisciorum fino al Pullus Longipassus Flectus. Un coacervo di creature insieme impossibili e oggi più che mai possibili, miscugli genetici che forse, in qualche lontano laboratorio segretissimo, qualche vero scienziato sta realmente studiando e progettando.

Metafore di un futuro possibile

“Abbiamo l’impressione”, scrive il critico Patrick Amine nel testo che accompagna la mostra, “che questa possibilità di mutazione ci permetta di considerare che tali specie possano esistere attraverso la loro stessa bellezza, come trasfigurate dal gesto ultimo dell’artista che ha attribuito loro caratteristiche fisiche ‘improbabili’ ma indubbiamente plausibili. In un certo senso, il bestiario ‘in evoluzione’ di Dario Ghibaudo non contiene incongruenze. Le sue creazioni sembrano nascere da un tessuto omogeneo legato ad una ‘certa Natura’ dove le cellule operano una proliferazione attraverso queste specie inventate in un movimento perpetuo di combinazioni”.

Tutto il Museo di Storia Innaturale, del resto, seppur concepito nel lontano 1990, prende le mosse dalle tassonomie illuministe, dai musei ottocenteschi, dalle Wunderkammern seicentesche, ma le ribalta, le contamina, le sovverte secondo una logica che è insieme estetica e ricca di una stratificazione di significati sempre più articolati e complessi, che racchiudono riflessioni etiche, scientifiche, filosofiche e teoriche, relative al fine ultimo della vita su questa terra, sempre più contaminata e meticciata con elementi che le sono originariamente estranei, siano essi culturali, letterari, scientifici o tecnologici. Come se il sapere naturalistico fosse stato messo in corto circuito con l’estetica della mutazione tecnologica tutta contemporanea, con la logica della bioingegneria, con le teorie delle nuove riflessioni filosofiche legate allo sviliuppo sempre più esplosivo delle tecnologie. Le sale di questo ipotetico Museo descrivono dopotutto una realtà deviata, deformata, ma perfettamente credibile. In cui ogni creatura, ogni vegetale, ogni ibrido è il risultato di un processo evolutivo imploso, collassato su sé stesso, e restituito in forma di simulacro. Un simulacro fragile, bizzarro, poeticamente misterioso e doloroso, proprio come è fragile, bizzarra, poeticamente misteriosa, e a tratti dolorosa, la nostra stessa vita su questo pianeta.

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