C’è un momento in cui, per qualcuno, la vita smette di essere una corsa a tappe verso quella fantomatica sicurezza personale,-mentre il mondo al di fuori di quella bolla crepa – e inizia a diventare una ricerca di senso. Per Massimiliano Ciucci, quel momento è arrivato a trent’anni, quando ha deciso di lasciare un contratto in banca per aiutare chi davvero ne aveva bisogno, e dare un senso, alla sua esistenza, un lascito.
Nell’intervista che segue, Massimiliano racconta l’evoluzione del suo progetto con una semplicità disarmante: dal sogno personale alla responsabilità collettiva, dall’Italia al Madagascar, dove ha vissuto per oltre dieci anni accanto alle comunità locali, imparando una nuova lingua, costruendo reti idriche, lottando contro corruzione e disuguaglianze, scoprendo i limiti – e le possibilità – della cooperazione internazionale.
In questa intervista, ci racconta dunque il percorso umano e politico che ha portato alla nascita dell’associazione Mangwana, ai progetti in Africa, alla vela sociale in Italia. Una conversazione che attraversa sogni, fallimenti, lezioni apprese sul campo – e un’idea ostinata di giustizia nonviolenta.
Partiamo dall’inizio. Come comincia tutto?
La storia inizia nel 2006. Io ero in banca. Prima avevo fatto di tutto: magazziniere, lavoro in fabbrica, saldatore… quei lavori che fai quando non hai voglia o possibilità di fare l’università. A diciott’anni già lavoravo.
Poi, nel 2000, entro in banca. Ci sono rimasto sei anni. Il mio piano? Contratto a tempo indeterminato per loro, ma a tempo determinato per me. Volevo mettere via i soldi per comprarmi una barca a vela e poi sparire.
Nel 2006, a trent’anni, ho detto basta. Mi sono licenziato.
E sei partito per il Madagascar?
Sì, ma prima abbiamo fondato l’associazione Manwuana con alcuni amici. Il nome non è malgascio, è shona — la lingua dello Zimbabwe. All’epoca stavo con una ragazza di lì.
L’idea era mettere su una scuola calcio appunto in Madascascar. Io a calcio ci ho giocato per una vita, a livello dilettantistico ma alto. Pensavo fosse l’unica cosa che sapevo fare.
Ma poi hai cambiato direzione, giusto?
Appena arrivato là ho capito subito che il calcio era l’ultima delle priorità. C’era bisogno d’acqua potabile, diritti per donne e bambini, tutela ambientale. Sono tornato, ho riportato il quadro generale agli altri dell’associazione, e abbiamo cominciato a ripensare tutto da capo.
Qual è stato il primo progetto concreto?
Una rete idrica. Portava acqua potabile a circa 1.100 persone, tre villaggi.
Il più grande… e il più sbagliato. Utile, certo, ma con l’approccio del bianco salvatore non vai da nessuna parte. Noi proponevamo, decidevamo: Fotovoltaico, pompe… Loro invece volevano soluzioni più semplici ed economiche.
La lingua ha rappresentato un ostacolo?
Assolutamente. Io parlavo inglese, lì si parla francese — che ho imparato sul campo — e soprattutto malgascio.
Il primo anno e mezzo comunicavo tramite interpreti. Un disastro. Poi mi sono detto: “Basta. Devo imparare il malgascio”. E l’ho fatto, vivendo con loro.
Hai incontrato anche ostacoli politici?
Sì. E c’era anche chi mi diceva: “Non ti malgascizzare”. Io invece volevo avvicinarmi, capire, staccarmi dalla visione coloniale. Ho visto da vicino tutti gli orrori della cooperazione: ONG, cooperanti con villette, voli spesati, figli in scuole private. Un circo.
E poi l’incontro che cambia tutto.
Sul treno da Fianarantsoa a Manakara ho conosciuto un italiano che parlava malgascio. Mi ha presentato Delfin. Una figura incredibile che ha fatto lotte sociali. 11 fratelli, educatore, attivista. Mai chiesto un euro. Per due anni abbiamo parlato di tutto, tranne che di soldi.
È da lì che sono partiti i progetti veri?
Sì. Abbiamo supportato la sua associazione, Vanna — vuol dire “integrità”, ‘’uomo responsabile’’. Condiviso competenze, un po’ di fondi. Ma niente tangenti. Non contribuire alla sottocultura della corruzione ma anzi osteggiarla. E lì se non ingrassi qualcuno, ti chiudono le porte. Per tre anni non potevo più entrare in certi villaggi. Ho ricevuto minacce serie.
Cosa siete riusciti a costruire in dodici anni?
Un centro polifunzionale. Ci fanno formazione, accolgono disabili, aiutano famiglie a ottenere i documenti. Abbiamo avviato progetti nella foresta, iniziative ambientali, ma soprattutto microcredito.
Come lo avete strutturato?
A gruppi: donne, anziani, ragazzini. Incentrando tutto sulla formazione, sul fornire strumenti concreti. Mai soldi in mano.
Facevamo campi comunitari. Il problema e’ che i bambini vanno a scuola massimo due anni e poi lasciano perche’ la scuola e’ difficile da raggiungere, oppure non ci sono insegnanti perche’ non vengono pagati. I genitori ti dicono: noi non abbiamo soldi, ed e’ vero ma e’ anche vero che hanno bisogno d’aiuto per gestire il raccolto, il bestiame, ecc.
Noi abbiamo sempre evitato l’adozione a distanza per una serie di motivi che meriterebbero un’intervista a parte e abbiamo avviato il progetto dei campi comunitari dove
I bambini raccoglievano la frutta, la vendevano, e mettevano da parte i soldi per la scuola., oppure davamo loro del materiale scolastico, a prezzo di costo, che rivendevano ad un prezzo superiore e da quei soldi ricavavano il necessario per grembiulini, merenda, retta scolastica, ecc.
Ai genitori, a seconda delle loro esigenze, fornivamo l’accompagnamento necessario alle loro attivita’ di sostentamento: attrezzi, terreni, ecc.
E oggi?
L’associazione funziona da sola. Delfin è presidente onorario. La presidente attuale è Olga, una donna, una cosa enorme.
Lavorano in tre province. Tutto gestito da loro. Noi non facciamo più nulla ed e’ esattamente così che doveva andare.
E il Senegal?
È un contesto diverso. Più strutturato. Sì, ci sono problemi economici, sociali — la poligamia crea dinamiche complicate — e anche corruzione. Ma le istituzioni sono più collaborative.
Abbiamo avviato un progetto per la gestione dei rifiuti, nata dall’esigenza dei locali, tramite la collaborazione con un’associazione sociale. Le autorità hanno messo a disposizione camion e ruspe per bonificare discariche abusive. Nessun finanziamento diretto, ma collaborazione vera. Anche i media locali ci hanno dato visibilità. E abbiamo creato posti di lavoro con contratto regolare.
A Fissel abbiamo ristrutturato un centro per disabili, e ottenuto dal Comune 8 ettari di terra per attività agricole.
Poi una parte è stata venduta da privati, e il progetto si è complicato. Abbiamo capito che, spesso, lavorare con soggetti privati è più sicuro.
Che tipo di agricoltura promuovete lì?
Agroecologia. Orti sinergici, permacultura, compost dai rifiuti organici. Usiamo tecniche per ottimizzare l’acqua, come l’irrigazione a goccia e la subirrigazione.
L’obiettivo è che l’associazione locale diventi autosufficiente entro un paio d’anni. Il governo ha promesso di coprire il 50% dei costi del personale.
E in Italia?
In Italia portiamo avanti progetti nelle scuole, ma anche sul mare. Nel 2020 è nato il progetto “vela sociale”.
Avevo venduto la mia barca per motivi economici. Poi, grazie a un finanziamento, ne abbiamo comprata un’altra: L’Aria.
Con amici e volontari, tra cui Dario Papini della Libreria dei Ragazzi di Pisa, usiamo la vela come strumento inclusivo e di autofinanziamento. In cinque anni abbiamo ospitato più di 200 persone, tra adulti e bambini con disabilità. Alcuni di loro oggi sono diventati assistenti degli istruttori.
E non solo vela, giusto?
No, c’è anche l’Oasi Mangwana. Uno spazio messo a disposizione da uno dei fondatori. Ci facciamo laboratori artistici, orti didattici, pet therapy, giochi all’aperto. Tutto questo fa parte del progetto La Salute ne L’Aria, che gioca sul doppio significato: benessere e il nome della barca.
L’associazione compie vent’anni nel 2025. Cosa avete in programma?
Non vogliamo un unico evento celebrativo, ma una serie di appuntamenti. Per raccontare, coinvolgere, valorizzare tutto quello che è stato fatto. Spesso in silenzio. Con migliaia di bambini, famiglie, persone fragili.
Ci servono fondi, certo. Ma ancora di più: persone. Energie nuove. Idee nuove. Competenze nuove.