“A Love Story in Hell”, una storia d’amore all’inferno: così David Lynch definiva Cuore Selvaggio(Wild at Heart), un film spesso relegato in secondo piano rispetto ai suoi titoli più celebrati, anche a causa della tiepida accoglienza ricevuta al momento dell’uscita.
Invece è proprio qui che Lynch inizia a definire in modo più netto il tratto visionario e profondamente personale che diventerà la firma distintiva della sua poetica fino alla fine.
Proprio come ci si immagina l’inferno, il film brucia senza sosta dall’inizio alla fine. Il fuoco, primordiale forza incontenibile, è presenza potente che percorre la pellicola, lasciando dietro di sé un’aura di pericolo e fascinazione. E si manifesta in modo latente o esplicito: nei fiammiferi, nelle sigarette, e soprattutto come carburante dell’avventura on the road dei due protagonisti innamorati, Sailor e Lula.

Con un alchimista dell’inconscio come David Lynch, le sincronicità junghiane non possono mancare, e infatti il primo incontro tra il regista e i due attori protagonisti, Nicolas Cage e Laura Dern avviene in un luogo chiamato Muse, a Beverly Hills mentre nello stesso momento, a pochi isolati di distanza, il Pan-Pacific Auditorium viene distrutto da un incendio indomabile. È il 24 maggio 1989, e le fiamme che divoreranno Cuore Selvaggio si professano già pronte ad ardere.
Amore e distruzione sono le colonne portanti della sceneggiatura, plasmata da Lynch in sole due settimane, dopo aver divorato il racconto di Barry Gifford Wild at Heart: The Story of Sailor and Lula, romanzo noir che si eleva oltre i limiti del genere, trasformandosi in una riflessione sull’amore e sulla ricerca di libertà in un mondo distrutto e frammentato.

In questo road movie, il viaggio è tanto fisico quanto interiore. Attraverso la loro fuga d’amore, Sailor e Lula non esplorano solo l’America, ma anche se stessi, proprio come accade a Dorothy ne Il mago di Oz. Una suggestione potente che, come ha rivelato lo stesso Lynch, è emersa spontaneamente durante la lavorazione del film. I riferimenti alla fiaba sono evidenti: la Strega Cattiva dell’Ovest appare in continue visioni che turbano Lula quale incarnazione simbolica e deformata della madre, figura manipolatrice che ostacola in ogni modo la sua evoluzione personale come donna adulta.
Per dare corpo alla complessità emotiva del suo personaggio, Laura Dern ha scelto di superare i propri limiti, infrangendo la regola che le impediva di girare nudi, e ha girato le scene erotiche, che Lynch ha reso psichedeliche con particolari inquadrature e l’uso di colori saturi, capaci di amplificare la tensione sensuale.
Lynch ha raccontato di aver immaginato Sailor e Lula come l’unione di due archetipi dell’immaginario americano: Elvis Presley e Marilyn Monroe, incarnazioni del mito maschile e femminile per eccellenza. Nasce in questo modo un tao pop, una coppia idealizzata perfetta.
Non a caso, Sailor è ritratto come un devoto di Elvis che indossa con orgoglio una giacca di pelle di serpente che definisce “simbolo della mia individualità, della mia fede nella libertà personale”, come ama ripetere a chi ne critichi l’eccentricità. Quella giacca, tra l’altro, apparteneva davvero a Nicolas Cage, che decise di portarla sul set e farne il segno distintivo del suo personaggio.

In un’intervista del 2005 per Total Film, Cage dichiarò a proposito di questo ruolo che cambiò per sempre il suo modo di recitare: “Stavo imparando ad avere una sorta di malizioso senso dell’umorismo mentre interpretavo i ruoli. Fu David Lynch a farmi capire chiaramente che se non ti diverti, nemmeno il pubblico si divertirà. Quel film era molto giocoso e non c’era molto tempo per pensare sul set perché David arrivava con nuovi monologhi il giorno stesso e cercare di memorizzarli era semplicemente assurdo. Non potevi analizzare troppo, ti buttavi e basta”.
Come accade anche per altri grandi autori – basti pensare a Kubrick con Shining o Arancia Meccanica – per registi del calibro di Lynch l’incontro folgorante con un’opera narrativa non implica necessariamente il desiderio di trasporla in modo pedissequamente fedele. Nel caso di Cuore Selvaggio, la scelta del regista è stata quella di concedere ai protagonisti un lieto fine, assente nella versione letteraria di Gifford.
In un’intervista rilasciata a Zach Schonfeld, Lynch ha spiegato: “Odiavo anche il finale, perché oltre a essere così deprimente, non sembrava affatto fedele ai personaggi. Mi sono trovato in una posizione difficile: se avessi dato un lieto fine, sarebbe sembrato che mi fossi venduto al commerciale. Ma spero di esserci riuscito, perché sinceramente quel materiale urlava di volerlo”.
Il risultato è stato invece un film visionario e da molti incompreso, che il regista ha finito di montare il giorno prima della sua presentazione a Cannes nel 1990, e che può essere considerato un momento di svolta: l’embrione di un nuovo linguaggio cinematografico, surreale e personale, che avrebbe segnato l’evoluzione futura del cinema lynchiano.