Cotognini, un artista-alchimista che trasforma la memoria in visione, alla BUILDING GALLERY

Dimenticate la mostra come sequenza di opere da ammirare in silenzio: Transitum di Fabrizio Cotognini alla BUILDING GALLERY non si guarda, si attraversa. È una camera delle meraviglie verticale, un rituale iniziatico che si snoda su tre piani e oltre, in cui ogni passo è una soglia, ogni opera un enigma da decifrare, ogni dettaglio una chiamata al pensiero. Cotognini non espone, invoca. Fa parlare i materiali, convoca fantasmi, rimescola immagini arcaiche e le costringe a prendere posizione nel nostro presente confuso. Il risultato è un mondo che pulsa in controluce, un lessico visivo fatto di bronzo, inchiostro, carta nera e oro zecchino, che non cerca mai di essere attuale ma finisce per esserlo più di tutto quello che vediamo oggi.

C’è qualcosa di estremamente fisico nel modo in cui le opere si distribuiscono nello spazio: stormi di uccellini in microfusione si posano su davanzali, terrazze e vetrate, come se avessero trovato il loro nido tra i volumi architettonici della galleria. Si intitolano Hybridatio Mundi, e già dal nome si capisce che qui la natura non è semplice ornamento, ma soggetto pensante. Sono loro i messaggeri tra cielo e terra, tra sacro e profano, tra ciò che resta e ciò che cambia. Sono il simbolo della trasformazione, che poi è la vera ossessione di questa mostra: trasformazione come viaggio, come processo alchemico, come trasfigurazione del sé e della materia, come dinamica tra vita e morte, tra identità fissa e identità fluida, tra memoria e immaginazione. Nulla in Transitum è statico. Tutto muta, tutto si rigenera, tutto si stratifica.

Fabrizio Cotognini L’Iperboreo – Cartone Preparatorio #11, 2025 penna Bic su Duralar, 42 x 30 cm (56,5 x 44 cm con cornice) ph. P-38 studio

Ogni sala è un capitolo, ma nessuna è chiusa su sé stessa. Le opere si parlano, si osservano da una stanza all’altra, come se si conoscessero da secoli. E forse è davvero così, visto che molte di esse nascono da incisioni antiche del XVIII secolo, rianimate dall’intervento grafico e pittorico dell’artista. Sono distopie, nel senso più nobile del termine: visioni che prendono l’armonia classica dell’architettura e la sporcano con inserti contemporanei, simboli della nostra bulimia estetica, del nostro feticismo tecnologico, della mercificazione visiva che ci circonda. Ma Cotognini non giudica: osserva. E con un’ironia sottile ci mette davanti uno specchio deformante in cui riconosciamo tutto il nostro presente.

Fabrizio Cotognini Rosae, 2024 inchiostro, matita, pastello, mylar su incisione originale del XVIII secolo 54 x 36 cm (72,5 x 52,5 cm con cornice), ph. P-38 studio

E poi ci sono le identità che si moltiplicano, che si sovrappongono, che sfuggono. Who is Christian Rosenkreutz? non è una domanda retorica, ma un grido silenzioso dentro un ciclo di ritratti in cui ogni volto è una possibilità, un tentativo, una maschera che non mente. Emerge la figura dell’Androgino, dell’essere doppio, fluido, mobile. È una riflessione sull’identità che parte dall’esoterismo ma arriva dritta alle questioni più urgenti della contemporaneità: chi siamo quando non siamo più uno? Quando ci scopriamo attraversati da altri, da epoche, da simboli, da sistemi di credenze che si contraddicono tra loro? Non ci sono risposte, e va bene così.

Al piano terra, un dialogo quasi organico tra arte e architettura prende forma tra l’opera Alveare e La Casa dell’Arte: il primo è un oggetto vivo, compatto, generativo; il secondo un plastico 3D della stessa galleria, che si offre come luogo di attraversamento, opificio immaginifico, dispositivo di nutrimento culturale. È come se BUILDING diventasse parte stessa dell’opera, inglobata in quel processo di trasformazione che Cotognini mette in moto e non lascia più fermare.

Il teatro prende possesso del primo piano come un’ombra maestosa: Parsifal, i cavalieri del Graal, i riferimenti a Wagner, alle strutture del teatro del passato, si sovrappongono a figure simboliche, a incisioni modificate, a reliquie finte e vere. C’è una teatralità misterica in queste sale, qualcosa che ricorda il sogno lucido, dove tutto è visione ma ogni visione lascia un segno. Salvator Rosa viene evocato come un nume tutelare, mentre le figure dei Dodici Cavalieri diventano icone residuali di un mondo che lotta per non svanire. La memoria qui non è nostalgia, ma carburante: serve per attraversare i secoli, per ripensare il presente con gli strumenti del mito.

Fabrizio Cotognini L’Androgino e il Doppio #6, 2024 biacca, inchiostro bianco e foglia d’oro 24K su carta francese nera 42 x 30 cm (45 x 32,5 cm con cornice), ph. P-38 studio

Il secondo piano, infine, è dedicato a ciò che non si vede subito: alla memoria profonda, alla macchina dello sguardo, alla visione come esperienza interiore. Le due installazioni dedicate ad Athanasius Kircher non sono solo omaggi, ma veri e propri esercizi spirituali. Una testa di filosofo da cui nasce una costellazione, un’anamorfosi che mostra lo stesso volto in due età diverse, due “sé” che si rincorrono nella stessa carne. È una riflessione sulla percezione, ma anche sull’eterno ritorno, sul tempo che non si lascia misurare in modo lineare.

E poi, come se tutto questo non bastasse, la mostra si espande nella Galleria Moshe Tabibnia, dove il cigno diventa figura centrale, simbolo di rigenerazione e purezza, incarnazione dell’iperboreo e dell’irraggiungibile. L’opera L’Iperboreo, fusione a grandezza naturale posata su due teschi, è potente come una visione da sogno. È una fine e un inizio insieme. È il transito stesso, il passaggio da una condizione a un’altra, da un tempo all’altro, da un’identità a una moltitudine.

Transitum non è una mostra che si guarda con distacco. È una mostra che ti attraversa, che ti modifica, che ti costringe a rimettere insieme i pezzi. È un dispositivo poetico, filosofico, esistenziale. E Cotognini, senza mai gridare, ci dice che trasformarsi non è una perdita, ma un modo di restare vivi.

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