Queer, diretto da Luca Guadagnino, è un’opera ipnotica e lacerante. Presentata in concorso all’81ª Mostra del Cinema di Venezia, è un’odissea intima che si snoda da Città del Messico a Panama, attraversando un’America Latina notturna, febbrile. In questo scenario crepuscolare si muove Lee, interpretato da un eccellente Daniel Craig, tossicomane e flâneur esistenziale, che si consuma nel tentativo di definirsi. Allerton, giovane sfuggente, diventa oggetto di un desiderio abissale da parte di Lee, un desiderio che è più bisogno, più vertigine che amore.
Guadagnino si confronta con un materiale narrativo esplosivo: Queer, romanzo postumo e incompiuto di William S. Burroughs (noi ne abbiamo già parlato qui: William Burroughs, quel che “Queer” non ci ha detto del “gioco del Guglielmo Tell”, ndr), non è tanto un’opera da adattare quanto un corpo da sezionare. Guadagnino distilla riferimenti, simbologie e ossessioni tratte non solo da Queer, ma dall’intero universo burroughsiano. Per questo Queer è un’opera-mosaico, una composizione apocrifa e apollinea, in cui i frammenti narrativi si accostano senza mai chiudersi in un disegno completo. Restano tanti vuoti, margini e interferenze visive che abitano gli stessi personaggi.

Lee è un personaggio che si sfilaccia, svuota e perde mentre cerca di colmarsi del mondo. La regia di Guadagnino lo incastona in interni esausti, abitati da oggetti che parlano più delle parole: macchine da scrivere silenziose, sigarette consumate, letti abbandonati come relitti emotivi. Tutto è già accaduto e, forse, tutto è già perso. Eppure Lee insiste, cerca, desidera. Ma il desiderio, qui, non ha nulla di erotico: è una fame metafisica, un’ansia di fusione che passa attraverso il corpo ma ambisce all’anima, è un desiderio che somiglia a un lutto. Lee è in lutto, è un uomo che piange il fantasma di sé stesso. Piange l’eroe mancato, la figura maestosa che avrebbe voluto incarnare.
Con Queer, Guadagnino ci suggerisce che esistono immagini che possono vivere solo nel cinema, che respirano unicamente nell’illusione luminosa della pellicola. Per questo, il film non vuole accontentarsi – o forse condannarsi – a muoversi solo sulla superficie visibile dell’essere: la coscienza. Una prigione senza via d’uscita. Ed è proprio in questa gabbia che entra in scena lo yagé, la leggendaria ayahuasca: una sostanza psicoattiva che, nel film, diventa la chiave per tentare un’impossibile connessione tra i due protagonisti.

I corpi di Lee e Allerton si fondono in una danza visionaria, epidermica, dove la pelle diventa veicolo di verità, il tatto si fa linguaggio, e il contatto fisico trascende l’erotismo. È una delle sequenze più liriche e dolenti del film, un’estasi malinconica che rievoca le liturgie dell’amore impossibile, l’eternità sfiorata e mai afferrata. A tratti il film appare come un relitto di se stesso, un affresco il cui intonaco si sfalda scena dopo scena, lasciando intravedere una trama che forse non c’è mai stata. Le relazioni tra i personaggi sono alluse, sospese, mai del tutto esplorate; dialoghi che accennano ma non spiegano, dettagli che evaporano prima di condensarsi in significato.

È un film che domanda molto allo spettatore, e poco concede in termini di rassicurazione narrativa. Si resta immersi, quasi soffocati, in un mondo in cui la bellezza è venata di morte e il sentimento è un turbamento alienante. Proprio in questa imperfezione, in questa disarticolazione, risiede la forza di Queer. Guadagnino firma un’opera ambiziosa e imperfetta, un tributo all’inquietudine come stato dell’essere, alla letteratura come carne viva, alla cinefilia come atto d’amore incondizionato, capace di rappresentare il dolore muto del vivere. Come Burroughs, anche Guadagnino osserva come l’identità sia in verità una finzione, un collage di pezzi mal incollati. E forse è per questo che Queer risulta così perturbante, frammentario, umano: perché non ha paura di mostrarsi smembrato, discontinuo, perso. Come tutti noi, alla fine.