Maestri indiscussi della ceramica contemporanea, Bertozzi & Casoni aprono un varco nel flusso incessante delle immagini cercando di ridestare un’umanità anestetizzata dal consumo. L’apparente configurazione fiabesca delle loro composizioni policrome nasconde un inesorabile memento mori, avanzi di banchetti diventano allegorie perfette della vanitas contemporanea.
“Ciò che vediamo non è ciò che è, ma ciò che siamo” è il titolo perfetto della mostra curata da Raffaele Quattrone in cui protagoniste sono le sorprendenti creazioni di Bertozzi & Casoni, ospitate fino al 15 giugno a Palermo nella splendida cornice di Villa Igiea, la storica villa progettata sul mare dal grande architetto Ernesto Basile per volere della famiglia Florio, da sempre meta privilegiata di viaggiatori di epoche diverse.
Tra le opere in mostra spiccano alcuni omaggi a grandi maestri della storia dell’arte come Giorgio Morandi, Lucio Fontana e Vincent van Gogh. Secondo Raffaele Quattrone “ciò che vediamo è solo un frammento della realtà, un’illusione”, ecco perché le sculture dipinte di Bertozzi & Casoni sono “fiori di ceramica che non sbocciano, custodie di violino che non contengono suono”, e questa apparenza ingannevole ci invita ogni volta a guardare più a fondo.
Rifacendo il vero Bertozzi & Casoni ci costringono a fermarci per riscoprire l’inaspettato, capovolgendo il nostro sguardo nell’atto stesso della visione. Le loro composizioni in ceramica dipinta sono una sorta di “archeologia del futuro”: vi sono infatti cristallizzate le tracce del passaggio dell’uomo, che con la sua hubris, ovvero con i suoi eccessi, ha depredato la natura. Ciò nonostante rimangono sempre vive la magia e la bellezza estetica della rinascita, “ecco allora fioriture, piccoli animali, dettagli estetizzanti che aprono uno spiraglio”.
Circa trent’anni fa Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni hanno scelto, in modo del tutto inusuale e dunque coraggioso per quei tempi, di rappresentare il loro immaginario artistico attraverso la ceramica policroma. Questa conversazione-intervista, gentilmente concessami da Giampaolo Bertozzi a margine dell’inaugurazione, svela molti lati interessanti del percorso artistico di questi due grandi maestri.

Comincio da una domanda ineludibile che sicuramente in molti le hanno già fatto. Dopo la scomparsa di Casoni, perché continua come se foste ancora un duo artistico?
Continuo perché non potrei fare diversamente. Bertozzi & Casoni è a tutti gli effetti una società, ma per me non è mai stato soltanto un marchio o una sigla: è una storia, una vita condivisa, un percorso costruito insieme giorno dopo giorno. Anche dopo la scomparsa di Stefano, sento che il nostro dialogo continua, che la sua presenza resta viva dentro ogni opera. Per questo firmo ancora Bertozzi & Casoni, perché quel “noi” esiste ancora, anche se in una forma diversa.
Immagino che diventare un brand sia stato anche un modo per essere più autonomi e non farsi sfruttare dal mercato. Che rapporto avete avuto con il mercato dell’arte?
Se vuoi fare il Santo, devi far parte della Chiesa. E se vuoi essere un artista, devi stare dentro il mondo dell’arte. Io e Stefano ne eravamo perfettamente consapevoli: gallerie, fiere, mostre, mercato… fanno parte del gioco. L’idea di renderci davvero autonomi dal mercato è sempre stata un’utopia.
Certo, ci abbiamo pensato, ma ogni volta che cercavamo di immaginare una strada diversa, finivamo fuori rotta. Noi facciamo gli artisti, questo sappiamo fare, ed è giusto che a occuparsi del mercato siano i galleristi. All’inizio, in realtà, la scelta di fondare una “ditta” andava oltre il discorso economico. Era legata a un’idea filosofica del fare: l’artista, per noi, è chi eccelle nel proprio mestiere, che sia un meccanico, un fornaio o uno scultore. È il gesto, la cura, la passione che fanno la differenza.

E la seconda motivazione qual è?
La seconda motivazione, secondo me la più importante, è questa. Nel tempo abbiamo maturato la convinzione che sarebbe stato importante creare un modo unico e originale per realizzare le nostre opere, facendo nascere un linguaggio che superasse le nostre individualità, annullando di fatto Giampaolo e Stefano e facendo nascere Bertozzi & Casoni.
Una sorta di spersonalizzazione?
Si esatto. Una spersonalizzazione che però non annulla, ma piuttosto fa nascere qualcosa di nuovo, una somma delle due personalità, piuttosto che un annullamento.
E quindi che cosa succede?
Succede che, rispetto ai primi lavori, cambia tutto. Iniziamo a focalizzarci su temi che sentivamo davvero nostri, come le Vanitas e i Memento Mori. Cominciamo a costruire composizioni che invitano a riflettere sulla caducità della vita, ma lasciando sempre aperta una via alla rinascita: ecco allora fioriture, piccoli animali, dettagli che rompono il senso di fine e aprono uno spiraglio di continuità.
Il nostro lavoro diventa una specie di scavo nel reale, nelle cose che ci circondano ogni giorno. Prendiamo oggetti comuni, li estrapoliamo dal loro contesto e gli diamo una seconda vita, svincolata dalla loro funzione originaria e affidata interamente alla dimensione estetica e simbolica.

Che cosa cambia a partire dal ‘97?
Dal ‘97 cambia tutto. Per la prima volta abbiamo l’opportunità di mostrare al pubblico la nostra visione dell’arte. È l’anno della mostra a Milano, alla galleria Milleventi di Giuseppe Pero, voluta da Gian Enzo Sperone. È proprio lui che cambia le cose, dandoci la possibilità di presentare quello che davvero volevamo fare. Un anno di preparazione durante il quale realizziamo una zolla, un “prelievo” simbolico di Paradiso.
In questa composizione una Madonna con Bambino sta tagliando un’aiuola fiorita. La falciatrice porta una scritta che recita “scegli il paradiso”, mentre i tulipani, ancora stilizzati, rinascono nel manto della Madonna. È il nostro modo di dire che nulla si perde nel cammino, che la morte, per noi, non esiste come concetto finale. Accanto a questa Madonna nascono i primi lavori che definirei Vanitas: piccoli accumuli di ossa, sparecchiature, oggetti dismessi. I titoli delle opere parlano chiaro: “Meravigliosso”, “Ossobello”, e per le sparecchiature, titoli come “Minimi Avanzi”, a sottolineare la bellezza che si trova anche nei resti, nella fragilità.
Nelle vostre opere non c’è il feticismo dell’iperrealismo, a differenza della Pop art c’è un’etica nella scelta dei soggetti: anche voi utilizzate la realtà come una grande opera da cui prelevare dei pezzi, però le vostre scelte dicono cose totalmente diverse…
L’arte ha sempre fatto questo: rifare il vero. La grande magia sta nel prendere un oggetto semplice, che ti “sceglie” per caratteristiche estetiche non sempre chiare, e trasformarlo. Restituirlo in un’altra forma, rinnovarlo. Un pittore dipinge un paesaggio che esiste già, ma lo fa per rendercelo in modo diverso, per darcene un’esperienza più profonda.
Nel nostro lavoro preleviamo dal reale, ma con l’intento di dare agli oggetti una seconda possibilità. Quando qualcuno mi chiede: “Perché non hai usato una custodia di violino vera?” io rispondo: “L’artista ha sempre copiato la realtà per offrirci una realtà diversa”. Non si tratta quindi di un feticismo dell’iperrealismo, ma di un processo creativo che trasforma l’ordinario in straordinario.
Vogliamo essere molto chiari, perché ci sono stati dei momenti in cui il nostro lavoro non veniva capito. Molti ci dicevano “Ma cosa hai voluto fare?”. Oggi non ci dicono questo, ci dicono “Perché fate questo?”.

Le vostre sculture dipinte sono una rappresentazione “fiabesca” – ma non per questo meno incisiva e tragica – della tracotanza umana. Gli scarti e gli avanzi sono un memento dell’attuale crisi ecologica?
Esatto, può anche essere questa una lettura. Lo è ad esempio l’orso polare che trascina la grande massa di rifiuti in cui è impigliato, un pesante fardello con cui fa fatica a procedere, un altro esempio è la cicogna che nidifica su una pila di vecchie batterie, e potrei richiamare innumerevoli altri esempi, l’ultimo dei quali è la tartaruga, che porta il titolo “Oracolo”, una tartaruga caretta caretta posta su un tavolo veterinario.
Ma abbiamo sempre dichiarato che non è solo questo, non è stato per noi la scelta principale parlare della crisi ambientale in cui l’uomo sta rovinosamente deteriorando il mondo in cui vive, ma piuttosto un’attenta analisi delle cose che ci circondano, facendoci catturare da forme come vecchie lattine, involucri di plastica, rifiuti e scarti, tutto un mondo fatto di forme e colori che per noi sono come la tavolozza di un pittore. Il memento contemporaneo che ne deriva è solo una conseguenza di un’osservazione diretta della realtà.
Stefano Dal Monte Casoni diceva che la spazzatura è bellissima se levi la puzza, piena di creatività
Ed è vero
Questo mi fa pensare ad una sorta di “archeologia del futuro”. Alla fine l’archeologia è un’analisi della spazzatura d’altri tempi, quello che oggi è un reperto importantissimo probabilmente nell’antichità era un oggetto comune o addirittura uno scarto.
Probabilmente si. Ma mi viene da pensare che gli oggetti della modernità saranno in un lontano futuro deteriorati o scomparsi. Il nostro lavoro rimarrà forse come sorta di catalogazione della nostra era, denominata da alcuni “Antropocene”. Le nostre opere infatti, essendo in ceramica, sopravvivranno al tempo probabilmente più di altri materiali, divenendo potenzialmente un reperto per le civiltà future, e – come si sa – gli archeologi chiamano i reperti ceramici “il fossile guida”.

La vostra estetica, ricca di forme e di colori, è all’opposto dell’estetica punitiva dell’arte concettuale. Quanto ha inciso la svolta della Transavanguardia nel vostro percorso?
Ci siamo formati negli anni settanta, in una scuola ad indirizzo ceramico professionale e successivamente all’Accademia di Belle Arti di Bologna, erano anni quelli in cui era imperante l’arte concettuale e si teorizzava la sparizione dell’arte, anche se eravamo un po’ alla fine della corsa.
La transavanguardia teorizzata da Achille Bonito Oliva, fine anni 70 inizio anni 80 portò quella ventata di ritorno all’opera di cui secondo noi c’era tanta voglia e necessità.
Erano gli anni in cui Franco Solmi, direttore della Galleria d’Arte Moderna di Bologna, e Marilena Pasquali, sua collaboratrice, riunirono un gruppetto di giovani artisti, tra cui anche noi, per far presente al mondo che i giovanissimi artisti avevano un sentire diverso. Questo movimento fu chiamato “La nuova ceramica” o “Lavoro felice”: un ritorno al colore e alle tecniche così snobbate dalle correnti artistiche del momento.
Avete avuto il grande merito di avere risvegliato l’attenzione per l’artigianato quando ancora era considerato un’arte minore. Tuttavia nella storia dell’arte contemporanea le donne hanno avuto un ruolo determinante nel recupero dell’artigianato come lavoro artistico, penso a Maria Lai e alla vostra doppia personale che in questo momento è in corso alla Livia Brunelli Gallery di Ferrara.
Sì è così, il caso di Maria Lai è emblematico, lei comincia a costruire un suo linguaggio osservando sua nonna che rammendava le lenzuola, questa idea di ricucire le lacerazioni è un’idea forte che l’arte in tutti i tempi ha tentato di fare, le donne in particolare hanno questa grande sensibilità e gli esempi nell’arte non mancano.
Maria Livia Brunelli ha pensato di mettere in parallelo il nostro lavoro con quello di Maria Lai, con la quale abbiamo in comune l’attenzione per il processo creativo di origine artigianale, ma anche molti elementi narrativi, concettuali e poetici. In questa mostra temporanea abbiamo realizzato alcune nostre tipiche composizioni di libri, che per questa occasione parlano anche dell’artista sarda. Inoltre è nato un nuovo pannello, una composizione di tubi che creano una sorta di meccanismo, un impianto che mette in rilievo l’idea delle connessioni, importante anche nel lavoro di Maria Lai.

Come vi è venuta in mente l’idea di fare la scultura dipinta, guardando l’antichità?
Come ho detto sopra ci siamo formati in una scuola ad indirizzo professionale, ma la cosa che univa me e Stefano era la grande passione per l’arte e per il colore. Nell’antichità la scultura era tutta dipinta, anche quella realizzata in marmo, questo immaginario nella nostra formazione è stato molto importante e di grande stimolo.
La ceramica ben si prestava a questa idea, essendo un materiale molto duttile, plastico e mimetico, con la possibilità infinita del colore. La ceramica è un materiale quasi alchemico, ed è fondamentale conoscerne i processi di lavorazione, ma c’è sempre qualcosa che sfugge alla conoscenza umana, l’arte ceramica viene anche chiamata “l’arte cieca”, in quanto alcuni colori cambiano con la cottura. Questo introduce anche una nota di imprevisto e di magico in quello che si fa.
Deve essere stato sicuramente un rapporto molto intenso il vostro, più che di lavoro, di vita.
Si il rapporto tra me e Stefano era molto intenso, eravamo molto spesso in conflitto, ma era un conflitto buono, positivo e costruttivo.
Il nostro lavoro si basava sul dialogo e sulla condivisione dei temi trattati, la cosa curiosa era che, dopo un’accesa discussione, ognuno di noi continuava il lavoro in solitaria e ognuno dei due si occupava del suo lavoro, non si faceva per così dire il lavoro “a quattro mani”. C’era però quel pizzico di competizione tra di noi che faceva sì che il lavoro migliorasse.
Penso che continuare a pensare al plurale sia la cosa più giusta, quasi più naturale.
Io non so spiegarlo, non so spiegarlo con le parole, però so che lui è ancora qui, non so il perché, però è così. Noi abbiamo fatto tutto assieme e continuiamo a farlo ancora, semplicemente.