La presenza di Daniele Nicolosi, alias BROS, nella Collezione Farnesina d’Arte Contemporanea segna un capitolo di forte significato, dove arte, protesta e reinterpretazione si fondono in un’unica installazione. L’opera, ospitata nel prestigioso contesto del Palazzo della Farnesina, nasce da una vicenda tanto curiosa quanto simbolica: un dipinto originale del 2005 venne “modificato” da un anonimo contestatore con l’aggiunta di vernice, trasformandosi così in un momento di confronto diretto tra l’artista e un gesto di censura violenta.
BROS, anziché rifiutare la sfida, ha accolto questo intervento estraneo come parte integrante della sua ricerca, creando una nuova opera che riflette su temi come il dissenso, il dialogo e l’aspettativa tradita. Il risultato, anche nel titolo (L’Evento – Badiou), richiama le riflessioni del filosofo Alain Badiou, rievocando il senso di un evento che altera la normalità, costringendo pubblico e creatore a rinegoziare il senso dell’opera stessa.
Daniele Nicolosi, noto come BROS, è un artista e street artist milanese considerato uno dei principali rappresentanti della sua generazione nell’arte urbana italiana. Bros ha iniziato la sua carriera negli anni ’90 con interventi artistici pionieristici nello spazio pubblico, evolvendo il suo stile verso opere che integrano murales e installazioni. I suoi lavori sono stati esposti in musei come il MART di Rovereto, il PAC di Milano e il MACRO di Roma, oltre a eventi di grande visibilità come EXPO 2015, dove ha curato la decorazione dell’Auditorium.
Abbiamo incontrato Daniele Nicolosi e gli abbiamo chiesto: Qual è stata la tua prima reazione quando hai visto che l’opera era stata imbrattata, rabbia, delusione, è stata un’occasione di riflessione, o lo hai visto come un atto di “collaborazione” non richiesta, come una critica, o come qualcosa di diverso?
È stato come guardarsi allo specchio, sei davanti a una figura che non ti rappresenta. Ho poi pensato che, se uno sconosciuto usa me per parlare dell’opposto delle mie azioni – la sua collera è stata come la furia iconoclasta dei talebani sulle statue dei Buddha di Bamiyan – io avrei potuto utilizzare lui, e la sua protesta, per raddoppiare la posta in gioco, usando il linguaggio che si era venuto a creare.
Sei riuscito ad avere un dialogo con questa persona?
Chiesi lui di restare, essendo diventato, di fatto, il protagonista della ricorrenza. Ma rifiutò l’invito, notai che era molto agitato. (L’atto accadde al vernissage di una mostra, nel 2005, dove presentai dieci Still Life a smalto su tela).
Hai mai sentito l’impulso di intervenire su opere di altri artisti?
Sì, e l’ho anche fatto. Indirettamente, nel 2018 su un disegno di Giacomo Balla, presentando l’esito alla mostra Abstracta – da Balla alla Street Art allestita al Museo Gagliardi di Noto e curata da Giuseppe Stagnitta, Giancarlo Carpi e Raffaella Bozzini. Mi sono servito di Linea di velocita + cielo + rumore (1913), attualizzando teorie antiche su reale/virtuale, mediante pittura giustapposta alla riproduzione ad alta risoluzione dell’immagine dell’opera dell’artista futurista stampata su una lastra in alluminio, l’esito è un’immagine materialmente ambigua. Riproduzione e gesto come metafore di conservare/progresso.
In più, data la scelta da parte dei curatori sulla sequenza installativa della mostra antologica, sapendo che la mia opera sarebbe stata esposta cronologicamente nell’ultima sezione, ho scelto di utilizzare la rappresentazione dell’opera che apriva l’esposizione, evocando una circolarità visiva. A mio avviso, la realtà è una questione sempre urgente, il suo significato è soggetto a un divario che si è acuito (o liquefatto, dipende dai punti di vista) negli anni ’10 del duemila.
Tu sei stato artista di strada, qual è il confine tra arte di strada e vandalismo? C’è un confine oppure no?
Qualsiasi artista, di ogni epoca e grado, quando porta il suo contributo alla storia, ‘vandalizza’ l’arte che lo ha preceduto. Affermare che Piero della Francesca fu un vandalo è un paradosso, però, seguendo questo discorso, il pittore e matematico rinascimentale ha cannibalizzato la concezione medievale del fare arte. Ovviamente, non l’ha fatto imbrattando un affresco di Cimabue, ma mutando radicalmente gli interessi dei valori dell’arte antecedente a lui. Usare il termine ‘vandalo’ solamente nel suo significato intrinseco sarebbe riduttivo, ricondurrebbe il tema al solo fine del decoro.
Il lavoro dell’artista è divenire. È vita, non rappresentazione di essa.
Hai anche curato un libro dal titolo “Il fu BROS”, di forte impatto. Cosa significa quel “fu”? È una chiusura definitiva con il tuo passato artistico o può avere una sfumatura di continuità?
All’inizio abbiamo parlato del lavoro entrato a far parte della Collezione Farnesina d’Arte Contemporanea di Roma pertinente al Ministero degli Esteri e delle Cooperazioni Internazionali, opera che sento fondamentalmente come una reificazione, una materializzazione di un concetto attivo. www.mailart.com (2006) è un manifesto che nel tempo è stato implementato nel contenuto a seconda degli eventi che lo hanno investito, nel bene e nel male. Concepito come un dipinto, si è trasformato in un veicolo culturale, attraversando diverse fasi e cambiando la sua semantica, fino ad essere scelto dalla commissione indetta dalla Collezione Farnesina composta da autorevoli figure professionali del comparto artistico nazionale per rappresentare parte del valore paese. Non è una novità che gli artisti hanno dovuto cercare metodi, speculativi o analitici, per rendere il proprio lavoro più eloquente.
Con il volume il fu BROS, 2022, Silvana Editoriale, attraverso una ricerca scientifica composta da iconografie inedite e da saggi prodotti da Alessandra Donati, Ida Terracciano, Nicolas Ballario, Giacinto di Pietrantonio, Leonardo Bentini e Marco Meneguzzo, ho ragionato in primis sulla concezione della figura dell’artista, consapevolmente soggetta ai contesti, necessaria per uscire dal solipsismo e per la creazione del lavoro caso per caso. Il progetto editoriale, partendo dal titolo, è quindi la mia scelta di abbandonare la mia prima riconoscibilità: il nome. È un atto consapevole di rinuncia come perenne messa in discussione.
Nella gran parte del lavoro svolto, in oltre 20 anni, ho cercato d’essere autonomo rispetto le posizioni di potere: pittura contro barriere architettoniche, pubblica proprietà in contrapposizione a quella privata. Cessare di utilizzare il mio nome è un modo per de-istituzionalizzarmi (‘prima di tutto l’artista è un nome’ ha affermato Hubert Damish), per riformare la costanza di un rapporto orizzontale col mondo. Fondando tutt’al più una temporalità non evoluzionistica, un prima e un dopo.
Come tutto il lavoro, che concepisco come metamorfosi, anche i fattori biografici sono inclusi in un sistema organico. Istituzionalizzare o demistificare anche lo status quo d’artista è dipendente da fattori ambientali, ugualmente all’opera d’arte. BROS è morto: una narrazione vera che mi permette di usare tutta l’attività svolta come fosse un tratto dell’operare oggi, un materiale da plasmare per il destino a venire.
Quindi, per questo “il fu BROS”, ma c’è qualche tratto di BROS che hai voluto mantenere, magari sotto altre forme?
Essere stato BROS ha insito una fine, e quindi un inizio, un seguito. Dona una ritmicità necessaria, almeno per me, per cercare di reagire a un ‘eterno presente’, una scelta che detta una linea di demarcazione.
L’installazione TWINGO MONUMENT realizzata al MART di Rovereto, che dal 2020 è attiva senza limiti di tempo e di spazio, è un esempio di questa vigoria.
Rinunciare ad un nome “ BROS” che ha segnato una certa storia dell’arte di strada in Italia, è stata una rinuncia forte, giusto?
Si, che ho sancito attraverso un lavoro editoriale antitetico all’autocelebrazione, dalla copertina al regesto. Una monografia di un autore in potenza, frustrando ancora l’aspettativa.
Tu hai avuto il coraggio di dire: “la mia vita da street artist è terminata, inizia la vita artistica di Daniele Nicolosi” non è stato sicuramente facile, ma quali sono gli aspetti della vita da street artist che ti mancano di più e cosa invece è stato per te un sollievo abbandonare?
Rinunciare alla pittura è l’aspetto più coraggioso. Avendo sempre considerato questa pratica come una guarigione dell’anima, collegialmente. Una praxis che ha avvalorato concetti che altrimenti avrebbero avuto solo una foggia teorica. Ma è cambiato il contesto e sarebbe orbo non considerarlo, essendo esso parte fondante di un certo modo di fare arte. Ho raggiunto molti obiettivi che mi ero prefissato ed è stato doveroso che un’arte sociale arrivasse a tanto. Oggi la Street Art è una forma d’arte ambita, storicizzata ed emulata.
Sono lieto di aver contribuito a questo risultato. Considero l’inoperosità una pratica necessaria al lavoro di un’artista, una fase di ascolto per esplorare nuovi percorsi e per ribadire la sua libertà. Rispetto all’impostazione della tua domanda, a rischio di ripetermi, non sono scindibili la mia persona con una fase del mio lavoro che ho chiamato BROS. Chissà quante altre ancora…
Molto bello