Black Mirror torna con la sua settima stagione che, episodio dopo episodio, è sempre più disturbante, più acuta, più vera. Charlie Brooker riapre il suo specchio nero attraverso sei episodi, sei visioni feroci, lucide. Dimenticate le consolazioni narrative della stagione precedente: qui si torna a giocare con le lame affilate della filosofia e della fantascienza, tra fantasmi digitali e inquietudini post-umane. Più raffinata, più consapevole, forse meno brutale, ma anche più dolorosa. Brooker ha capito che il futuro fa meno paura quando è lontano. È la quotidianità, invece, a essere mostruosa.

Il prologo della stagione è un colpo al cuore. Gente comune è un’apertura agrodolce, che affonda le mani nel terreno etico dell’immortalità digitale. L’idea è semplice e al tempo stesso disturbante: caricare la coscienza di una persona su un cloud, per tenerla in vita. Ma dietro la promessa di eternità si cela un meccanismo economico spietato, dove la coscienza diventa abbonamento, la memoria diventa merce, e l’amore si trasforma in un piano tariffario. È qui che Black Mirror torna ad essere corrosivo, puntando il dito non solo contro il futuro della sanità, ma anche contro il presente dello streaming. Una riflessione brutale sui mostri del possibile, dove l’accesso alla salute è già una questione di credito e capitale. Ma è anche – ed è qui la genialità – una critica metatestuale al capitalismo della visione.
Con Bestia nera ci si inoltra in territori più viscerali, dove l’horror psicologico incontra il tecno-thriller. Maria lavora in un’azienda in cui viene assunta una sua vecchia conoscenza. Dal suo arrivo, Maria è vittima di fenomeni sempre più inquietanti, trovandosi imprigionata in una realtà che si sfalda sotto i suoi piedi, tra parole che si deformano e memorie alterate. L’episodio diventa un manifesto sul controllo narrativo della realtà, e sulla possibilità — terrificante — che la nostra mente non ci appartenga più.

Hotel Reverie affonda le mani nella celluloide per dissezionare l’anima hollywoodiana. Una star del cinema, un remake forzato, e una prigione digitale che odora di nostalgia tossica. È il cinema che divora se stesso, in un eterno ritorno di cliché e algoritmi. Visivamente sontuoso, emotivamente profondo, l’episodio danza sulle orme di San Junipero, ma senza il suo lirismo. Qui non c’è paradiso, solo backstage infiniti.
Il quarto episodio, Come un giocattolo, è forse il meno incisivo, ma non per questo privo di interesse. La vita di Cameron Walker è inghiottita da un videogioco dalla grafica retro ma dalla presa psicologica totalizzante. Cameron si smarrisce nel labirinto di una vita alternativa che gli promette più di quanto la realtà gli offra.

Paul Giamatti presta volto e voce a Eulogy, forse l’episodio più struggente e poetico dell’intera stagione. La morte viene rivissuta e esplorata come un paesaggio interattivo. La tecnologia diventa evocativa, catartica, dà vita al passato per lenire un presente vuoto. È il dolore che non sa come trasformarsi, inchiodato a uno slideshow di memorie. Una riflessione toccante sul lutto e sul bisogno – umano – di non lasciar andare.
Chiude la stagione il tanto atteso sequel di USS Callister, iconico episodio della quarta stagione. Qui Black Mirror si concede la vertigine dell’epica, in un episodio da 88 minuti che gioca con l’immaginario di Star Trek, ma lo rovescia in uno spazio più oscuro. La capitana Cole guida una ciurma digitale verso una libertà possibile. È la fantascienza come riflesso di una società tossica e un videogioco come specchio dell’ufficio. Il tono è ambizioso, l’intento quasi mitologico: fondare un nuovo pantheon per il XXI secolo, fatto di avatar e mondi che si sovrascrivono.