Quando un’istituzione storica come La Fenice sceglie la propria guida musicale, ogni dettaglio diventa simbolico: chi conduce, con quale curriculum, con quali rapporti istituzionali. La recente nomina di Beatrice Venezi a direttore musicale del teatro veneziano ha scatenato un conflitto culturale e politico che va ben oltre la sua persona: il caso rivela tensioni profondissime fra meritocrazia, trasparenza, collegamenti fra mondo della cultura e potere politico.
Il 22 settembre scorso la Fondazione Teatro La Fenice ha annunciato con entusiasmo la nomina della giovane direttrice lucchese, 35 anni, con un mandato quadriennale che dovrebbe partire nell’ottobre 2026. La decisione è stata presentata come unanime, benedetta dal consiglio di indirizzo guidato dal sindaco Luigi Brugnaro, salutata con toni solenni dal governatore Luca Zaia e dal ministro della cultura Alessandro Giuli, che hanno parlato di scelta “lungimirante”, “meritata”, capace di proiettare Venezia e la sua orchestra verso il futuro. Per un attimo è sembrata la consacrazione di un percorso già mediatizzato: la musicista che il grande pubblico aveva conosciuto al Festival di Sanremo, la donna che rivendicava il titolo di “direttore d’orchestra” in un mondo ancora maschile, l’artista giovane e telegenica diventava il volto del più importante teatro lirico veneziano. E, non dettaglio secondario, una figura pubblicamente percepita come vicina al centrodestra, che ha espresso in più occasioni stima per Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, e che porta con sé anche un retaggio familiare ingombrante: il padre, Gabriele Venezi, è stato candidato sindaco per Forza Nuova. Elementi che, nel racconto pubblico della nomina, hanno agito da moltiplicatore simbolico e politico.
Eppure, lo stesso giorno in cui la nomina veniva celebrata, nei corridoi della Fenice cresceva un malessere profondo. Gli orchestrali hanno raccontato di aver appreso la notizia dai giornali, senza che ci fosse stato un confronto, senza che fosse presentato un progetto artistico, senza nemmeno una comunicazione ufficiale da parte della dirigenza. Quel vuoto di procedure ha reso la vicenda incandescente. Il 25 settembre, i novanta professori d’orchestra hanno firmato una lettera durissima al sovrintendente Nicola Colabianchi: chiedono la revoca immediata della nomina, spiegano che il curriculum di Venezi non è paragonabile a quello delle bacchette che negli anni hanno diretto la Fenice, contestano la modalità opaca di una scelta percepita come imposta dall’alto. Dicono che non è una questione politica, non è una battaglia di genere, ma di professionalità.
Il giorno dopo, l’assemblea generale di circa trecento lavoratori del teatro – tecnici, amministrativi, personale di sala – si è schierata compatta a fianco dell’orchestra. È stato proclamato lo stato di agitazione, con l’annuncio di azioni sindacali, scioperi, sit-in. Nel giro di quarantotto ore, quello che era nato come un malumore silenzioso si è trasformato in una rivolta aperta.
La sera del 27 settembre, durante gli applausi finali della Sinfonia Tragica di Mahler, dai palchi superiori sono caduti decine di volantini: “La musica è arte, non intrattenimento”. Una frase breve, lapidaria, diventata slogan della protesta. Alcuni spettatori li hanno raccolti e rilanciati, trasformando la sala in un teatro nel teatro, mentre dal palco veniva letto il comunicato dei lavoratori. Il pubblico ha applaudito a lungo. Immagini così, in un’istituzione simbolo della lirica italiana, non si vedevano da decenni. La Fenice, che nel suo stesso nome porta l’idea della rinascita, diventava l’epicentro di un cortocircuito: tra palco e platea, tra istituzioni e artisti, tra la politica e la musica.
Da quel momento la vicenda è uscita dal perimetro veneziano ed è diventata caso nazionale. L’ex sovrintendente Cristiano Chiarot, uno che la Fenice l’ha guidata per anni, ha detto chiaramente che il problema non è la politica ma l’insufficienza del curriculum: “Smettiamola con queste sciocchezze: Beatrice Venezi semplicemente non ha le competenze professionali all’altezza di un teatro del prestigio internazionale della Fenice”.

Eppure, quel curriculum esiste ed è più complesso di come viene raccontato nei titoli polemici. Pianista di formazione, Venezi ha studiato direzione d’orchestra con Piero Bellugi e Donato Renzetti. È stata direttrice principale dell’Orchestra Scarlatti Young di Napoli, ha collaborato con la Nuova Orchestra Scarlatti, con l’Orchestra della Toscana e con l’Orchestra della Fondazione Arena di Verona. Ha diretto all’estero, dal Giappone all’Argentina, dalla Georgia alla Bielorussia, ed è apparsa come ospite in festival internazionali. Ha inciso diversi album con Warner Classics – tra cui una raccolta dedicata a Puccini e un disco monografico su Mozart – e ha pubblicato anche un libro di riflessioni sul ruolo della musica. Ha diretto opere come La Traviata, Tosca, Madama Butterfly, ma quasi sempre in teatri di medio livello, non nei circuiti di primissima fascia. Il suo è dunque un curriculum reale, costruito in poco più di dieci anni di carriera, che racconta di una direttrice giovane, curiosa, mediatica, ma ancora lontana dalle grandi platee che solitamente forgiano un direttore musicale di un teatro come la Fenice.
Altri hanno fatto notare che in passato la Fenice aveva nominato direttori molto giovani, come il venezuelano Diego Matheuz a 27 anni, senza che scoppiassero contestazioni simili. Ma allora perché ora questa levata di scudi?
La risposta non è univoca. C’è sicuramente un tema di metodo: l’assenza di trasparenza, la sensazione di una decisione calata da Roma, forse influenzata dal fatto che Venezi sia vicina al centrodestra e dunque percepita come espressione di un disegno politico più ampio. Ci sono poi ragioni di merito, la percezione che il teatro rischi di sacrificare l’eccellenza artistica a favore di un’immagine più spendibile mediaticamente. C’è infine il fattore simbolico: una giovane donna, spesso presente nei talk show e sulle riviste patinate, che viene chiamata a guidare un’istituzione storica. Per alcuni è un segnale di apertura e modernità, per altri una scelta di facciata, un token femminile che serve più alla politica che alla musica.
Beatrice Venezi, in questi giorni, ha scelto per lo più il silenzio. Ha annullato la partecipazione al Festival delle Idee di Mestre, scrivendo una lettera in cui parla di “polemiche ingiustificate” e ringrazia le istituzioni che le hanno dato fiducia. Ha detto che non vuole commentare per non alimentare tensioni, ma ha fatto sapere di aver incaricato l’avvocata Giulia Bongiorno di difenderla da presunte falsità diffuse sul suo conto. Il sovrintendente Colabianchi l’ha difesa a spada tratta, ricordando di averla già diretta a Cagliari in Tosca e Traviata, e parlando di un investimento sul futuro, di un volto giovane capace di attrarre sponsor e pubblico nuovo. Il ministro Giuli ha ribadito che la nomina è confermata “a maggior ragione”, il sindaco Brugnaro ha convocato un incontro con i sindacati per l’8 ottobre, nella speranza di disinnescare lo sciopero previsto per la prima del Wozzeck.
Intanto, fuori dalla Fenice, la discussione infuria. È nata una petizione online che in pochi giorni ha superato le diecimila firme per chiedere la revoca della nomina. Molti musicisti e orchestre di altri teatri hanno espresso solidarietà ai colleghi veneziani. Altri, invece, hanno difeso Venezi, accusando l’orchestra di conservatorismo, ricordando che l’arte vive anche di scommesse, rischi e rotture. Alcuni sponsor hanno fatto sapere di apprezzare la scelta. L’opinione pubblica si divide, i social diventano campo di battaglia: c’è chi commenta che un teatro del calibro della Fenice merita una guida con esperienza internazionale, e chi scrive “diamole una chance, vediamo cosa saprà fare”.
Quello che colpisce, in questa vicenda, è la stratificazione di piani. C’è la questione strettamente musicale, la valutazione delle competenze e delle esperienze di una direttrice d’orchestra. C’è la dimensione politica, con un governo che rivendica la scelta come segnale di rinnovamento e un’opposizione che difende le ragioni dei lavoratori. C’è la dimensione simbolica, quella del genere, dell’immagine, della comunicazione. La musica diventa specchio di una società che fatica a distinguere tra merito e appartenenza, tra talento e visibilità, tra la necessità di aprire ai giovani e quella di difendere standard d’eccellenza. In questo quadro, il fatto che Venezi sia vicina al centrodestra, che abbia espresso stima per Giorgia Meloni e che sia figlia di un ex candidato di Forza Nuova, agisce come catalizzatore: per i sostenitori è la prova che si sta rompendo un monopolio culturale; per i detrattori è l’indizio di una cooptazione, di un teatro che rischia di diventare terreno di scambio politico più che luogo di autonomia artistica.
La verità è che nessuno, oggi, può sapere come andrà a finire. Venezi dovrebbe insediarsi tra un anno, nell’autunno 2026. Nel frattempo c’è una transizione lunga, forse troppo. Un anno in cui l’orchestra dovrà decidere se accettarla o continuare a rifiutarla, in cui la direttrice dovrà capire se e come costruire un rapporto con chi, per ora, la respinge. Un anno in cui il teatro dovrà trovare un equilibrio tra governance e lavoratori, evitando che la vicenda lasci cicatrici irreparabili.
Forse, alla fine, parlerà la musica. Forse conterà quello che accadrà sul podio, quando Venezi alzerà la bacchetta davanti a quell’orchestra che oggi la contesta. Forse sarà un successo e le polemiche svaniranno, forse sarà un fallimento e allora la protesta avrà avuto ragione. Nel frattempo, resta un fatto: la Fenice, che nel corso della sua storia è bruciata e rinata più volte, oggi è di nuovo al centro di una tempesta. E non è solo una questione di Venezia o di lirica: è un pezzo d’Italia che si interroga sul valore del merito, sul ruolo della politica nella cultura, sulla capacità delle istituzioni di rispettare chi l’arte la fa davvero, ogni giorno, con le proprie mani e con i propri strumenti.



La politica dovrebbe smettere di monopolizzare territori che hanno il valore e l’indipendenza come cifre stilistiche proprie.
Basta con questo potere che si connota con un profilo basso e arrogante.
Ma se Beatrice Venezi si fosse proclamata amica della Schlein o di Conte, invece che di Giorgia Meloni, sarebbe scoppiato questo putiferio? Quanto al curriculum, Domingo sarà anche vecchio, ma non è rincoglionito. Perché avrebbe messo in gioco la propria reputazione per una giovane musicista, se questa non avesse talento? E al Teatro Colon di Buenos Aires, uno dei più prestigiosi del mondo, sono tutti incompetenti?
È la politica che mantiene questi carrozzoni di di enti lirici pieni di deficit, e quindi vuole decidere. È così da sempre e continuerà ad essere così e non può che essere così. Succede lo stesso in tutti gli ambienti, ospedali compresi, è ingenuo stupirsene. Per anni la sinistra ha foraggiato l’arte, anche quando di arte ve n’era poca …