“Aurora Popolare” e l’epoca più grande di noi. Intervista a Federico Dragogna dei Ministri tra disincanto, padri scomparsi e nuove speranze

Ricordo ancora quando li vidi per la prima volta, sul lungomare di Cagliari nel 2007: i Ministri erano sul palco con tutta l’energia ruvida, incendiaria e sarcastica de “I soldi sono finiti”, mentre attorno aleggiava già la polvere della crisi economica che avrebbe incrinato ogni certezza. Sembravano urlare al mondo che niente sarebbe stato più come prima, che i castelli costruiti a credito stavano crollando e che non restava che stringere i denti e continuare a suonare. Era un’energia viscerale, collettiva, che faceva vibrare la sabbia.

Sono passati più di diciotto anni, eppure quella spinta non si è spenta. Si è trasformata. In questa intervista a Federico Dragogna, in occasione dell’uscita del nuovo album Aurora Popolare, quella forza riemerge sotto altre forme: non più la rabbia come combustibile, ma la lucidità di chi ha attraversato le tempeste della vita — i figli, i genitori che invecchiano, le disillusioni, i silenzi, i cambiamenti inevitabili.

Oggi i Ministri non hanno smesso di credere nella musica come atto di resistenza. La loro forza non sta più solo nel volume o nella furia, ma nella capacità di continuare a scrivere, provare, costruire, rimettere insieme pezzi, anche quando sembra che tutto intorno stia cedendo.

ph Chiara Mirelli

Federico, avete sempre una grande capacità di creare delle atmosfere specifiche, delle sensazioni, delle immagini in ogni disco. In Aurora Popolare mi sembra che ci sia tanta rassegnazione. Voi avete scritto: mentre da ragazzi credevamo in finte speranze, oggi sembra che anche queste siano finite. Non c’è più nessuno che ci vende questi finti futuri che almeno ci davano un po’ di slancio, in questa “epoca più grande di noi”

Sì, ma questo è un problema soprattutto delle nuove generazioni. Noi almeno avevamo, come dici tu, quel vantaggio: la spinta delle illusioni. È probabile che con l’età quelle illusioni si sarebbero comunque infrante, ma oggi un ragazzo di vent’anni non ha nemmeno più il diritto di averne. Viviamo in un’epoca più grande di noi, nel senso che tutto appare incontrollabile, inaccessibile.

C’è qualcosa di irrimediabilmente distante e frammentato, e credo che questa sia proprio la percezione che può avere oggi un giovane. Noi siamo cresciuti negli anni ’90 con l’idea che esistesse un diritto internazionale, un’autorità al di sopra degli Stati, una qualche forma di collaborazione tra gli esseri umani. Oggi questa idea si è schiantata contro un muro con una forza incredibile. È come se, nella volta del cielo, fosse improvvisamente scomparsa una figura portante, come poteva esserlo un tempo il diritto internazionale. In questo senso, davvero, questa è un’epoca più grande di noi, sotto ogni aspetto.

ph Chiara Mirelli

Mi volevo poi ricollegare anche all’immagine di copertina, che riprende un’estetica propagandistica tipicamente cinese, però non c’è il Mao, non c’è il dittatore:  c’è un sole senza un viso. In Berlino 3, voi cantavate “Lascia, che ci sia un padre sopra di noi, che si batta il petto e si chieda perché dovrà seppellirsi da sé”: il padre che era rassegnato, però c’era.  Dove sono oggi i nostri padri? In cosa hanno fallito?

Se guardiamo anche al tipo di “nemici” che avevamo noi mentre crescevamo, erano tutto sommato figure paterne: severe, passatiste, bigotte. Erano il richiamo a un ordine, a una conservazione, a un ritorno al passato. Oggi quelle figure sono state sostituite da strani mostri esaltati. Persino quella che è sempre stata considerata una certa “destra” — custode dei valori, della tradizione — oggi si aggrappa a personaggi come Trump o Elon Musk: figure da fumetto, che non hanno più nulla del padre e della sua severità. Questo è il grande salto. Non stiamo più parlando di padri severi: stiamo parlando di psicopatici. Di mostri, davvero, e su ogni livello.

Come dite in “Boom”, no?

Esatto: un tempo sarebbero stati considerati mostri anche da qualunque destra. Elon Musk, tra uteri in affitto e figli che si chiamano come codici fiscali, che cosa ha della destra di una volta? Che cosa ha della tradizione? Niente. Niente di niente. È uno scenario completamente nuovo, in cui in realtà le persone — anche se forse non se ne sono ancora accorte — sono molto più vicine tra loro, al di là delle bandiere e delle fazioni, perché sopra di noi ci sono dei cattivi da cartone animato. Persone che letteralmente sterminano migliaia di esseri umani in una zona del Mediterraneo, per poi costruirci dei residence immobiliari.

In Terre Promesse parlate di come il tempo cambia il nostro sguardo sul mondo, anche in Astronomia e Nostalgia c’è questo riferimento al futuro e al passato. Questo disco è nato più dal guardare indietro, cioè una nostalgia per ciò che è andato perduto, o c’è un tentativo di proiettarsi comunque ancora avanti?

Il tentativo di proiettarsi avanti è, letteralmente, scrivere. Scrivere queste canzoni, lavorarci con altre due persone per un anno e mezzo solo per far sì che, alla fine, scorressero così come scorrono adesso. Tutto questo sforzo è, di per sé, un atto di speranza.

E ti dirò una cosa: hai presente quando una relazione attraversa quel periodo strano in cui sembra che tutto vada ancora bene, tutto sta in piedi, ma sotto c’è già una crepa e, in realtà, sta crollando? Poi, a un certo punto, implode, si sfascia, e tu rimani lì con un dolore enorme.
Eppure, in mezzo a quel dolore, c’è un istante in cui ti dici: “Sto malissimo, sto peggio che mai… ma meglio di prima. Meglio di quando c’era la bugia.”

Ed è proprio in quel momento, quando vuoi ripartire, che quello che ti metti nelle cuffie non è una hit estiva, non è Shiny Happy People dei R.E.M., ma qualcosa di disperato come te.

È interessante notare anche come in questa estate non ci sia stata una vera e propria hit. Forse non c’è stata questa voglia di spensieratezza e leggerezza. Forse c’è voglia di qualcosa di più impegnato da cui partire per ricostruire

Il problema è che abbiamo quasi l’obbligo oggi di godere, di eccitarci, di divertirci e questa cosa è insostenibile, sia perché è un cortocircuito rispetto a quello che sono le nostre possibilità di vita, i nostri stipendi che sono fermi al palo dal 2001. Conosco gente che ama la musica e ha sempre amato la musica e che è ormai in ansia per tutte le uscite: siamo davvero esausti. 

ph Chiara Mirelli

Nel 2013 cantavate Noi fuori con l’energia di chi vuole restare ai margini per combattere il sistema dall’esterno; in Poveri noi, invece, sembra che quel “noi” sia diventato stanco, ironico, quasi rassegnato davanti a un’apocalisse al rallentatore. Che cosa è successo a quel “noi”?

A questo “noi” è successo di tutto: il Covid, i figli, i genitori che iniziano a stare male. È semplicemente successa la vita. Eppure ieri sera, alla nostra prima presentazione, la sala era piena. Nonostante i figli da portare a scuola, le sei ore di sonno, le preoccupazioni per i genitori, le persone hanno comunque trovato il tempo e la voglia di uscire per venire ad ascoltare i Ministri — che, tra l’altro, non sentono neppure in radio o in televisione.

Ecco, questo per me è il segnale più chiaro che “noi” possiamo continuare a sperare.

Per quanto riguarda il tour invece, c’è qualcosa di nuovo, state sperimentando qualcosa di teatrale? Dacci qualche anticipazione…

In realtà, a noi interessa semplicemente suonare: è questo il cuore di tutto. Certo, ci sono le nuove “divise” da capire come indossare, ma la nostra vera urgenza è suonare al meglio possibile, con tutta la forza e l’energia che abbiamo. Facciamo un’infinità di prove e stiamo già preparando tutti i pezzi del tour, con una scaletta che sarà molto impegnativa — per noi da suonare, e per chi sta sotto il palco da reggere, anche fisicamente.

Il baraccone con le fiamme e i coriandoli, quello, non fa per noi.

Ultima domanda personale, quando tornate in Sardegna? 

Stiamo lavorando per tornarci all’inizio del 2026, cioè tra l’inverno e la primavera, sicuramente l’estate prossima, ma se riusciamo a fare una “capata” fuori stagione sarebbe ottimo.

1 commento

  1. Splendido leggere queste parole e aggrapparsi alla consapevolezza che gruppi come i Ministri continuino ad esistere, a crederci, e a rappresentare un’esigenza musicale vera.

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