Nella sala del Foro Romano della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, luogo simbolo della memoria e della cultura milanese , prende vita fino al 14 ottobre la mostra Are you in love? No, I’m in Milano di Pietro Terzini, a (non) cura di Antonello Grimaldi e dello stesso artista. È un titolo che suona come una dichiarazione d’intenti, un manifesto ironico ma non privo di profondità: l’amore e Milano, due dimensioni che si intrecciano, si sovrappongono e si confondono in un gioco di parole e immagini.
Terzini classe 1990, ci ha abituati a un linguaggio che attraversa la leggerezza del meme e la solennità del gesto artistico, che fa convivere l’icona pop con la memoria collettiva, l’ironia con la riflessione. Le undici opere su carta, i sei neon e i tre specchi, qui radunati, sono un dialogo che si accende fra il contemporaneo e la tradizione, fra il consumismo come linguaggio popolare e l’arte come spazio di resistenza e reinterpretazione.
Il supporto scelto — i sacchetti dei grandi brand della moda — non è un dettaglio, ma un atto consapevole: la moda diventa superficie, la città di Milano diventa cornice e protagonista, la scrittura si fa gesto e corpo. È un’arte che parla direttamente, che non ha bisogno di filtri o di sovrastrutture critiche: “Pietro Terzini non ha bisogno di curatori”, sottolinea Antonello Grimaldi, ribadendo l’idea di un linguaggio accessibile, aperto, democratico.

Lungo il percorso si incontrano parole che diventano neon, specchi che riflettono domande più che risposte, frasi che oscillano tra provocazione e confessione. In filigrana, il tema del giudizio: il peso dello sguardo altrui, la libertà di essere sé stessi, la leggerezza di rispondere “tanto ti giudicano comunque”. Terzini, con la sua estetica diretta, costruisce una sorta di haiku visivo della contemporaneità: poche parole, un’emozione, un cortocircuito fra immagine e pensiero.
La mostra è un omaggio a Milano, ma anche all’Ambrosiana stessa, custode della Canestra di Caravaggio e simbolo di un dialogo costante tra memoria e presente. Così, accanto alle scritte luminose, emergono citazioni iconiche della città: la Madonnina, il Caravaggio, segni che riconducono a un tessuto culturale che Terzini sa tradurre in un linguaggio fresco, immediato e pop.
All’interno di questo percorso ho avuto modo di ascoltare direttamente le parole dei protagonisti. Pietro Terzini racconta la sua prima mostra pubblica, i gesti, i supporti e il senso di ciascuna opera.

Pietro, questa è la tua prima mostra pubblica. Che cosa troveremo all’Ambrosiana?
Troverete una piccola mostra concentrata in un’unica sala, ma molto significativa per me. Le opere sono tutte realizzate sui sacchetti dei brand di moda: un gesto che unisce arte e quotidianità, consumo e linguaggio pop. Ci sono anche riferimenti iconici a Milano, come la Madonnina e la Canestra di Caravaggio che è custodita proprio qui, all’Ambrosiana. Il tema generale è il giudizio: accanto alle mie frasi su carta, ci sono neon che le commentano o le ribaltano. Alla fine, però, un’opera dice: “Tanto ti giudicano comunque”. E questo un po’ riassume tutto.
Quindi il centro è il giudizio degli altri?
Esatto, il giudizio degli altri. Però scritto da me, con la mia voce. Alla fine, se ci pensi, non puoi mai sottrarti davvero al giudizio. E allora tanto vale prenderla con ironia: “sti cazzi”, in un certo senso.
Perché i sacchetti dei brand come supporto?
Ho iniziato lavorando proprio su carta, utilizzando i sacchetti dei brand. Per me oggi loghi, colori e marchi sono parte della cultura popolare. Fanno parte dell’immaginario collettivo. Volevo che la mia arte fosse colorata, accessibile e immediata, e credo che i sacchetti abbattano una barriera di comprensione: li conoscono tutti, li riconoscono tutti.
E invece i neon?
Il neon mi piace perché è luminoso, risalta. È un modo semplice ma potente per trasformare una scritta in qualcosa che cattura subito l’attenzione. Non c’è una filosofia nascosta dietro: la luce funziona, accende lo sguardo. A volte basta questo.

Dall’altra parte, Antonello Grimaldi, Segretario Generale della Biblioteca Ambrosiana e non curatore della mostra, racconta il suo ruolo e la sua visione: lei si definisce “non curatore” della mostra. Perché questa scelta?
Perché credo che l’arte contemporanea, quella di artisti vivi e presenti come Pietro, non abbia bisogno di curatori. I curatori servono quando un artista non c’è più, quando le opere vanno spiegate e contestualizzate. Qui non c’è nulla da interpretare oltre la voce dell’artista. Io mi sono limitato a raccogliere il suo pensiero e a trasformarlo in un testo più accattivante, senza aggiungere nulla di mio. Per questo mi definisco “non curatore”.
Eppure, il giudizio sembra essere al centro di questa mostra. Lei che idea si è fatto?
Sì, il giudizio c’è, ma è sempre a libera interpretazione. Pietro gioca con questa ambivalenza: tutti noi cerchiamo di scrollarci di dosso il giudizio degli altri, ma in realtà ne abbiamo bisogno. Non del giudizio in senso negativo, ma del conforto che deriva da un confronto, da un dialogo. E qui sta la sua forza: Pietro con le sue parole ricrea un dialogo. In un’epoca in cui i dialoghi si interrompono — nelle coppie, nelle famiglie, nella società — lui ci invita a ricominciare a parlare.

Quindi nelle sue opere non vede solo leggerezza pop?
Assolutamente no. Pietro viene spesso etichettato come artista pop o leggero, ma io ci vedo molto di più. Creando frasi semplici e immediate, costruisce un ponte con lo spettatore. “Are you in love? No, I’m in Milano”: ognuno può completarla a modo suo — “No, I’m in Ambrosiana”, “No, I’m single”, “No, io sono divorziato”. E questo è bellissimo: è l’arte che genera dialogo, che invita a rispondere.
E per l’Ambrosiana, che cosa rappresenta questa mostra?
Per noi è un’apertura, un modo per mostrare che questo luogo millenario, che custodisce capolavori come la Canestra di Caravaggio, può dialogare anche con l’arte contemporanea. Non è un tradimento della tradizione, ma un arricchimento. È stato possibile anche grazie alla comunità che vive qui dentro, che ha accolto con rispetto questa scelta. Vedere i neon di Pietro accanto alle opere storiche significa riconoscere che Milano è una città capace di vivere nel presente senza dimenticare il suo passato.
In fondo, Are you in love? No, I’m in Milano è proprio questo: un dialogo continuo, tra parole e immagini, tra neon e carta, tra ironia e profondità. Pietro Terzini ci mette davanti alla leggerezza con cui possiamo ribaltare il giudizio degli altri, ma allo stesso tempo ci ricorda che senza confronto non c’è vita, non c’è relazione, non c’è crescita.


