Il suo ultimo lavoro è un omaggio a due grandi mostri sacri della letteratura, Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia, e da poco ha realizzato una grande ninfa acquatica per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla crisi idrica nelle regioni del sud. Angelo Crazyone è un urban artist molto prolifico, che ha deciso di rimanere a vivere e lavorare nella sua isola, la Sicilia. Ma Angelo è soprattutto un artista completo, capace di conciliare la tradizione con le ultime tendenze del momento. In lui confluiscono stili diversi fondendosi in una sintesi molto personale che attinge dalla scomposizione del mosaico siciliano fino alla ‘OP art, senza tralasciare le ultime tendenze dell’IA. Il risultato è un linguaggio molto originale per l’arte urbana, oggi prevalentemente figurativa e a volte, purtroppo, pacchianamente retorica e didascalica.
La tecnica dello stencil caratterizza molto questo artista, il “micro segno” lo distingue dai cliché figurativi contemporanei collocandolo a metà tra figurazione e astrazione simbolica. Le sue opere toccano temi universali come la “memoria”, la “bellezza” e le “paure umane”; i suoi soggetti sono spesso volti iconici riconoscibili attraverso una “visione urbana”, ovvero da lontano e in movimento, mentre invece diventano astratti quando ci si avvicina. Tra i suoi volti più celebri, realizzati tramite l’accostamento e la ripetizione di un simbolo legato al personaggio, attraverso il quale costruisce il pattern che delinea “l’architettura” dell’intero lavoro, vi sono quelli di Frida Khalo (associata ad un cuore), di Franco Franchi (associato ad uno smile) e di Don Pino Puglisi (associato ad una croce).
Crazyone è dunque artista a tuttotondo, capace di usare il simbolo nelle sue opere, ma anche di mantenere salde le sue radici Pop, dalle quali si intravedono interessanti riferimenti e raffinate citazioni, persino ai punti Ben-Day di Roy Lichtenstein. Ma la Sicilia di Angelo Crazyone è soprattutto terra di miti e di leggende antiche, come quella delle tre ninfe che avrebbero dato vita all’Isola, le sue opere risentono chiaramente di questo fascino antico, femminile e arcaico al tempo stesso.
In questa intervista scopriamo cosa lo ha ispirato maggiormente e come il suo rapporto con l’Isola abbia influito profondamente nel suo modo di fare arte.

Angelo, hai appena realizzato due murales nel centro storico di Agrigento, a cura di Openartproject e Manuela Sandri di Art Made in Sicily, in concomitanza con Agrigento Capitale della Cultura 2025, che raffigurano due mostri sacri della letteratura italiana, Pirandello e Sciascia. Ci vuoi parlare di questa esperienza di rigenerazione urbana attraverso l’arte?
Realizzare i murales di Pirandello e Sciascia nel cuore di Agrigento è stato come riportare a casa due maestri che da sempre mi guidano con il loro pensiero. Con queste opere abbiamo restituito energia e luce al centro storico: un segno condiviso, nato da sacrificio e passione, che appartiene a tutta la comunità. Per me la rigenerazione urbana attraverso l’arte significa trasformare i muri in ponti: legami che uniscono passato e presente, restituendo dignità agli spazi e nuova vita a chi li abita. Ad Agrigento ho sentito forte questo dialogo vivo tra la città, la sua memoria e le persone che la animano.
Hai da poco realizzato anche un murale ad Acquedolci, in provincia di Messina, nei pressi del più grande bacino idrico sotterraneo della Sicilia, è per questo motivo che hai voluto rappresentare una nereide o ninfa marina? Raccontaci il perché di questa scelta.
Ho scelto di rappresentare Thetis, ninfa delle acque, perché ad Acquedolci l’acqua è vita, identità e memoria. Proprio qui, infatti, è stata confermata la presenza della più grande falda acquifera della Sicilia: oltre 17 miliardi di metri cubi di acqua dolce e quasi certamente potabile, un patrimonio che potrebbe da solo fronteggiare l’emergenza siccità che affligge l’isola. Il volto della ninfa emerge come sospeso, ricomposto in pixel che la fanno respirare e rivivere. È formato da tante gocce, simbolo dell’acqua, a rappresentare nel micro come nel macro, quel bacino di risorse che scorre invisibile nel sottosuolo. Ad Acquedolci, a soli 80 metri di profondità, l’acqua sgorga ancora oggi dolce e potabile persino in mare: un unicum storico e naturalistico che meritava di essere trasformato in immagine e custodito nell’arte.

A Gela invece hai raffigurato una Medusa, che cosa rappresenta per te questa figura mitologica?
A Gela ho scelto di raffigurare Medusa Oltre lo Sguardo, con gli occhi chiusi, perché volevo trasformare una figura temuta in un simbolo di introspezione e resistenza. I serpenti diventano guardiani silenziosi e il volto della Gorgone riflette la dualità tra forza e vulnerabilità, tra caos e pace interiore. È anche un omaggio a Gela, città che, come Medusa, ha saputo rinascere più volte dalle sue difficoltà, mantenendo viva la sua anima indomita.
Le tue opere toccano temi universali che hanno radici profonde in Sicilia, quanto ha influito quest’isola nel tuo linguaggio, c’è un legame con la tradizione del mosaico?
Assolutamente sì. La Sicilia ha plasmato profondamente il mio linguaggio artistico: la sua storia, le sue tradizioni, i suoi paesaggi sono parte di me. Il mosaico siciliano, in particolare, mi ha sempre affascinato: quei piccoli tasselli che insieme compongono un’immagine sono molto simili al mio modo di lavorare, unendo frammenti per creare un tutto armonico. Per me è un ponte tra passato e futuro, tra memoria e innovazione. Nei miei lavori ogni segno, ogni pixel, ogni frammento contribuisce a creare un’immagine completa, proprio come nei mosaici siciliani. È un modo di unire passato e futuro, memoria e innovazione, trasformando piccoli dettagli in un racconto più grande.

La tecnica dello stencil ti caratterizza molto, cosa ti ha spinto a lavorare con il micro segno e con la parcellizzazione simbolica dell’immagine?
Il micro segno è il ritmo segreto della mia pittura, un respiro che si ripete e si trasforma. La parcellizzazione dell’immagine è nata dal desiderio di andare oltre il figurativo consueto, creando un linguaggio che fosse solo mio. Frammentare e poi ricomporre la figura è come comporre un mosaico contemporaneo: ogni piccolo gesto diventa parte di un tutto vibrante, dove simbolo e forma dialogano tra loro.
Hai partecipato a diversi progetti di riqualificazione urbana attraverso l’arte, da Ballarò allo Sperone di Palermo, qual è stato il suo rapporto con i residenti, sei riuscito a dialogare con loro?
Il dialogo con i residenti è sempre stato al centro del mio lavoro. Durante il progetto Sperone167 ho avuto l’opportunità di confrontarmi direttamente con la comunità locale. Mentre realizzavo il murale, bambini curiosi si avvicinavano per offrirmi il loro aiuto, gesti spontanei che mi hanno fatto capire quanto l’arte vada oltre l’estetica: è relazione, partecipazione e 0. Sperone167, infatti, punta a stimolare la cittadinanza attiva e a promuovere la valorizzazione dei luoghi attraverso l’arte, creando un legame profondo tra gli abitanti e il loro territorio.
Dalle Madonie alle periferie, dallo Sperone a Ballarò, hai lavorato in luoghi molto diversi, ce n’è uno al quale sei particolarmente affezionato?
Sì, ho un legame speciale con entrambi i quartieri, ma forse lo Sperone mi ha colpito di più. È un luogo che spesso viene trascurato, ma ho visto nei suoi abitanti una forza straordinaria. Durante il progetto Sperone167, ho avuto il privilegio di lavorare fianco a fianco con i residenti, condividendo momenti di creatività e riflessione. Il quartiere ha risposto con entusiasmo, dimostrando che l’arte può essere un catalizzatore di cambiamento sociale. Anche a Ballarò ho vissuto esperienze simili. Il documentario Prospettiva Ballarò, disponibile su Netflix, racconta come cinque artisti abbiano trasformato le pareti di edifici in disuso in opere d’arte, riflettendo sulla comunità che li circonda. Lavorare in questi luoghi mi ha insegnato che ogni quartiere ha una sua anima, e l’arte può aiutare a raccontarla e a darle voce.
Con le tue opere hai saputo accendere i riflettori sulle difficili condizioni di vita delle periferie, penso ad esempio a Senza Nome, il volto di donna che non esiste creato per Sperone167 con l’uso dell’IA e con interventi manuali di stencil e spray. Che cosa rappresenta questo volto per te, una moderna Santa Rosalia?
Senza Nome cammina tra le ombre dello Sperone, invisibile agli occhi ma potente nello spirito. Come una Santa Rosalia moderna, veglia silenziosa sulle vite dimenticate, portando rinascita dove regna il silenzio e trasformando l’invisibile in presenza. Non è solo un volto: è simbolo di anonimato e tenacia, rappresenta ogni vita dimenticata e ogni comunità che si rigenera, trasformando fragilità in bellezza e dando voce a chi spesso resta invisibile, apparendo dove serve e donando forza senza bisogno di farsi riconoscere. Il luogo designato al mio murales, più nascosto degli altri, era un punto di ritrovo per i consumatori di crack. Oggi, grazie al faro di attenzione mediatica acceso dall’opera, quell’edificio abbandonato è stato ristrutturato ed è diventato un centro di assistenza e servizi.

Il murale di Franco Franchi a Ballarò è rimasto nel cuore dei palermitani. Ci sarà anche Ciccio Ingrassia?
Franco senza Ciccio è metà della storia. Sarebbe bello completare quel dialogo, perché loro due insieme incarnano davvero l’anima popolare di Palermo. Il mio sogno sarebbe vederli uno accanto all’altro anche sui muri di Ballarò, così come sono rimasti nei ricordi e nei cuori dei palermitani: inseparabili, ironici e profondamente legati alla nostra identità.
I simboli che associ ai tuoi volti iconici sono una tua scelta o della committenza?
Quasi sempre i simboli sono una mia scelta. Non sono semplici ornamenti, ma segni che nascono da un legame intimo con i volti che dipingo. La croce per Don Pino Puglisi, la stella per bukurìa arbëreshe a Piana degli Albanesi, lo smile per Franco Franchi: frammenti che diventano chiavi di lettura, condensando in un gesto essenziale l’anima del personaggio. È il mio modo di trasformare la memoria in immagine, la vita in segno.

Con la tua tecnica particolare hai reso omaggio anche alla bellezza femminile siciliana, dalla “Bukurìa Arbëreshe” di Piana degli Albanesi all’ immancabile Rosalia, la Santa di Palermo. Qual è il tuo rapporto con le donne?
Le donne per me sono fonte di ispirazione continua, non solo per la bellezza, ma per la forza, la determinazione e il mistero che custodiscono. Il murales a Piana degli Albanesi, Bukurìa Arbëreshe, che in italiano significa “bellezza albanese”, nasce dall’incontro con una ragazza del luogo che indossava l’abito tradizionale: un’immagine fotografica che mi ha subito colpito, perché il vestito prezioso sembrava un cielo stellato ricamato. Con la tecnica dello stencil ho trasformato quelle stelle in segni, componendo il suo ritratto come un vero e proprio ricamo di luce. Con Santa Rosalia ho dato volto alle donne che hanno attraversato la mia vita, reali o immaginate. Amori, amicizie, visioni create dall’IA: tutte diventano specchi diversi della stessa figura. È un dialogo segreto tra donna e artista, dove lei mi ispira e io la restituisco al mondo come icona senza tempo.
Come possono le pitture urbane stimolare riflessione senza cadere nella retorica, soprattutto quella antimafia?
Il rischio è che le città, e Palermo in particolare, stiano diventando un cimitero a cielo aperto, un museo della memoria che consola più che disturbare. Quello che vedo, sempre più spesso, è una liturgia urbana che anestetizza il conflitto invece di provocarci: volti di eroi, santi laici, martiri della mafia ovunque. Murales che sembrano altarini da processione, consolatori, rassicuranti. Fa comodo alla politica, fa comodo alle istituzioni: si appropriano dell’estetica, la trasformano in propaganda, e intanto i problemi veri restano sotto l’intonaco che cade. E il punto è che, a volte, fa comodo anche a noi artisti. Ci crogioliamo nell’idea di fare memoria, di portare luce. Ma se l’arte urbana diventa solo decorazione commemorativa, siamo complici. Stiamo anestetizzando il dolore, trasformando il conflitto in estetica patinata. L’arte, quella vera, non deve rassicurare né abbellire le rovine. Deve ferire, disturbare, aprire spaccature. Non serve l’ennesimo volto martire incollato su un muro: serve un linguaggio che riapra le domande, che spinga a guardare dentro il presente, non solo indietro al passato.

Sei rimasto in Sicilia, una scelta difficile per un artista. È avvenuto per necessità o per dichiarazione d’intenti?
Restare è stata una scelta consapevole. Certo, non è facile, le opportunità altrove sono maggiori. Mi piace viaggiare, portare fuori e riportare dentro, ma la mia base resta questa terra, con tutte le sue contraddizioni.
In che modo questa scelta ha influenzato la tua visione artistica?
La Sicilia è un mosaico di contraddizioni: bellezza e dolore, storia e abbandono, fede e ribellione. Tutto questo è entrato nei miei lavori. Ogni tratto che faccio porta dentro di sé un po’ di questa terra. Qui tutto è più estremo: la bellezza e la difficoltà convivono ogni giorno. Questo contrasto entra inevitabilmente nei miei lavori, nei volti, nei simboli. Viaggiando respiro altre energie, ma è sempre la Sicilia che mi dà la radice, quella tensione che poi cerco di trasformare in segno.

Hai realizzato tantissime opere e in questa intervista abbiamo provato a raccontarne alcune, d’altronde realizzi murales da più di vent’anni… Cosa ti ha spinto verso l’urban art?
L’urban art per me è stata una chiamata naturale. Vengo dai graffiti, dal bisogno di lasciare un segno nello spazio pubblico. Il muro è sempre stato il luogo più vero: non una tela chiusa in uno studio, ma una superficie che appartiene a tutti. Con il tempo, ho sentito la necessità di evolvermi, di trasformare quel gesto istintivo in qualcosa di più consapevole. L’urban art mi ha permesso di farlo, mantenendo la forza del messaggio diretto ma arricchendolo di significato e forma. Dopo più di vent’anni sento ancora quella stessa spinta: trasformare lo spazio urbano in linguaggio, in incontro, in possibilità di bellezza.

Per concludere vorrei sapere da dove deriva il tuo nome, ti ritieni la persona più “pazza” nella stanza?
Il nome “Crazyone” è nato un po’ per gioco e un po’ per necessità. Da ragazzo ero sempre quello che provava strade diverse, sperimentava, rompeva un po’ le regole. Faceva parte anche del mio pseudonimo insieme alla crew, Skinny Power, con Rosk e Loste. Non è tanto questione di pazzia, quanto di energia, curiosità e libertà creativa: caratteristiche che ancora oggi guidano il mio lavoro nell’Urban Art. Questa energia si riflette nel mio approccio alla tecnica dello stencil. Inizialmente, tagliavo manualmente le maschere, un processo che richiedeva precisione e pazienza. Oggi utilizzo una macchina per il taglio, ma la rimozione dei negativi resta interamente manuale. È un lavoro meticoloso, lungo, quasi maniacale. Spesso uso più strati di stencil sovrapposti, creando composizioni che nascono da centinaia di micro-dettagli. Ogni taglio, ogni strato rappresenta un pezzo di me, un atto di creazione che continua a sfidare i limiti e a cercare nuove forme di espressione.



