Alien: Earth è un dramma psicologico sul controllo e sulla manipolazione. Ma dove sono gli xenomorfi?

Con Alien: Earth, ora disponibile su Dinsey+, il franchise nato da Ridley Scott nel 1979 approda finalmente al linguaggio seriale, e lo fa attraverso la visione di Noah Hawley, che ha scelto di collocare la sua storia due anni prima degli eventi del film originale. Non è però la cronologia a fare la differenza, ma la scelta radicale di spostare l’azione dallo spazio profondo alla Terra, in un contesto che diventa immediatamente più vicino e, proprio per questo, più inquietante. Le ambientazioni sono ridotte e scarne: un centro di ricerca su un’isola remota e i resti di un’astronave schiantata. La loro ristrettezza e ripetizione alimentano un senso continuo di claustrofobia, come se non ci fosse via di fuga possibile. In questo spazio chiuso l’orrore non si manifesta tanto come assalto esterno, ma come pressione interna, psicologica e sociale, che avvolge lo spettatore fin dall’inizio.

Gli xenomorfi compaiono, ma la loro presenza è più contenuta di quanto ci si aspetterebbe: sono confinati a esperimenti, laboratori, ambienti controllati. Le nuove forme aliene introdotte nella serie non diventano i veri antagonisti, ma piuttosto strumenti, simboli, elementi funzionali a un racconto che concentra l’orrore altrove. Hawley sceglie consapevolmente di ribaltare la prospettiva: il nemico non è la creatura, ma chi la manipola. L’orrore, quindi, non si genera nella bestia che attacca, ma nel controllo che gli umani e gli ibridi esercitano su di essa, nell’uso che ne fanno come arma, nella volontà di piegarla a fini di potere.

È in questo quadro che emergono i Lost Boys, tra i punti più originali e disturbanti della serie. Non sono bambini veri, ma synth che ospitano le loro coscienze, manipolati geneticamente e programmati dalla Prodigy Corporation. Tra loro spicca Wendy, che in realtà è Marcy, trasferita da bambina in un corpo sintetico. Gli attori adulti che li interpretano riescono a rendere la dissonanza: gesti infantili, voce acerba, goffaggine emozionale dentro corpi maturi. Il risultato è profondamente inquietante: figure adulte che si comportano come bambini, incapaci di uscire dalla loro condizione. La scelta dei nomi — Wendy, Tootles, Curly, Smee, Nibs, Slightly — rimanda direttamente ai Lost Boys di Peter Pan, creando un parallelo ironico e crudele. Là dove Barrie immaginava bambini che non crescono per magia, qui la condanna deriva dalla tecnologia corporativa: una favola spezzata trasformata in incubo.

In questo contesto si colloca la figura di Boy Kavalier, CEO di Prodigy, interpretato da Samuel Blenkin, personaggio controverso e simbolico. Definito un boy genius, si muove scalzo, manipola tablet con i piedi, si comporta con la capricciosità di un bambino, ma al tempo stesso detiene un potere smisurato. È leader globale, dominatore di infrastrutture tecnologiche, capo di un impero basato proprio sulla manipolazione dei dati. La sua incoerenza — infantile ma dittatoriale — è disturbante perché rispecchia il nostro presente: un potere contemporaneo che non nasce dall’esperienza né dalla saggezza, ma dalla capacità di gestire algoritmi e sistemi digitali. Boy Kavalier non è soltanto un villain: è un ritratto, per quanto esasperato, dei leader attuali, incapaci di maturità emotiva ma dotati di un’autorità illimitata.

Il suo contraltare è Wendy/Marcy, interpretata da Sydney Chandler, una delle figure più forti e complesse della serie. Se Boy Kavalier incarna l’infantilismo al potere, Wendy rappresenta una forma di potere diverso, quasi sovrannaturale, capace di coniugare l’ibridazione biologica con il dominio tecnologico. Nata dalla coscienza di una bambina trasferita in un synth, cresce fino a sviluppare capacità uniche: nel momento cruciale della serie, arriva a servirsi della rete per controllare tutti i sistemi e persino a comunicare con uno xenomorfo, piegandolo al proprio volere contro le truppe di Prodigy. Questo passaggio, tra i più controversi e discussi, segna un cambio radicale nel franchise: per la prima volta l’orrore non è nella creatura incontrollabile, ma nella possibilità che qualcuno la controlli. Wendy diventa così un’entità capace di ridefinire la gerarchia del potere, trasformando la minaccia aliena in strumento della propria ascesa.

Il tema centrale della serie è quindi il potere. Da un lato quello di Boy Kavalier, infantile e capriccioso, simbolo dei leader che reggono infrastrutture globali senza la maturità per farlo. Dall’altro quello quasi mistico di Wendy, che parte da una condizione di fragilità — una bambina sintetizzata, manipolata, usata — per evolvere in dominatrice di sistemi, ibrida di carne e rete, corpo e coscienza, umano e alieno. In mezzo ci sono i Lost Boys, vittime che incarnano l’innocenza violata e la manipolazione corporativa, creature intrappolate tra due stati che non appartengono a nessuno dei due.

Tutto questo è reso possibile dalla cornice claustrofobica. Le ambientazioni ridotte, i corridoi stretti, l’isola isolata e l’astronave spezzata contribuiscono a una sensazione di gabbia costante. Non c’è respiro, non c’è vastità: lo spazio stesso diventa trappola, e lo spettatore viene intrappolato insieme ai personaggi. È una scelta che lega la serie alle origini del franchise — il Nostromo di Alien era a sua volta una prigione spaziale — ma la rinnova, spostando il tema nel nostro mondo, sulla Terra.

Dal punto di vista stilistico, Alien: Earth predilige un ritmo lento, sospensivo, fatto di silenzi e attese più che di azione continua. Le esplosioni di violenza, rare, arrivano come rotture improvvise che colpiscono con più forza. La fotografia lavora su tonalità cupe, luci nette e ombre profonde, trasformando il buio in un linguaggio narrativo a sé. Il suono, con rumori metallici, pause improvvise e risonanze ovattate, accentua l’inquietudine e fa emergere l’horror come percezione psicologica più che come evento visibile.

La serie non è esente da difetti: alcune transizioni narrative appaiono affrettate, certe incoerenze nei personaggi (in particolare nella rappresentazione di Boy Kavalier) rischiano di incrinare la credibilità, e la concentrazione di poche location può dare un senso di monotonia. Ma proprio in queste scelte risiede anche la coerenza del progetto: Alien: Earth non vuole essere un racconto di azione frenetica, ma un’analisi disturbante del potere e della manipolazione.

Il risultato è una serie che ridefinisce l’orrore all’interno del franchise. Non più solo il mostro esterno che minaccia la sopravvivenza, ma il potere interno che plasma corpi e coscienze. I Lost Boys con le menti infantili nei corpi synth, Wendy che diventa entità ibrida e sovrana, Boy Kavalier che trasforma la vulnerabilità in dominio assoluto: tutto converge in un orrore che è insieme politico, psicologico e sociale. Il vero mostro, suggerisce la serie, non è l’alieno, ma l’uomo che crede di poterlo controllare, che usa l’innocenza come materia prima, che fa della tecnologia un’estensione della propria ossessione di potere.

Alien: Earth lascia aperte molte domande e non risolve tutte le tensioni narrative, ma porta il franchise in un territorio nuovo, in cui il mito degli xenomorfi diventa occasione per riflettere sul nostro tempo. L’orrore non è nello spazio, ma nelle strutture che costruiamo, nei leader che seguiamo, nei corpi che manipoliamo. È un orrore che non viene da fuori, ma che nasce dentro la nostra civiltà, nelle sue ambizioni, nei suoi limiti e nelle sue paure.

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