I FILM SULL’ARTE DA NON PERDERE SU NETFLIX

Arte in streaming: abbiamo selezionato i film sull’arte che potrete vedere su Netflix comodamente sul vostro divano.

Netflix, la piattaforma di streaming a pagamento, ha messo a disposizione diversi documentari e film sull’arte che ci raccontano gli artisti e le loro opere da vedere in questi giorni di isolamento obbligatorio. Ecco le nostre proposte!

 

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L’ARTE VIVA DI JULIAN SCHNABEL

Da qualche settimana Netflix ha messo a disposizione del pubblico italiano l’intenso documentario “L’arte viva di Julian Schnabel”, diretto da Pappi Corsicato. La prima cosa che mi sono immaginato è come il misterioso algoritmo di Netflix si sia ispirato proprio al lockdown  per proporci questo film. Julian Schnabel infatti indossa quasi esclusivamente comodi ed eleganti pigiami, nel documentario come nella vita vera, come se fosse sempre a casa e come se considerasse il mondo un enorme casa in cui stare sempre a proprio agio: in pigiama. Il film, prodotto da Valeria Golino, Riccardo Scamarcio e Viola Prestieri, racconta tutto il percorso artistico di Schnabel dagli inizi, quando i suoi genitori volevano che diventasse un commercialista, fino agli ultimi anni in cui continua la sua ossessione per le tele gigantesche. In un passaggio si accenna alla ‘visione strabordante delle cose’ che ha Schnabel, probabilmente nata in opposizione ai piccoli ambienti in cui aveva vissuto in Texas. In realtà l’attitudine di Julian sembra essere quella del surfista, capace di domare e cavalcare le onde della vita. Una persona sicura di sé, che scommette con la sua gallerista che in 5 anni dal suo debutto avrebbe guadagnato la copertina di Artforum. Un personaggio così strabordante a cui organizzeranno una personale in due gallerie, quella di Mary Boone e quella di Leo Castelli. Un artista così non poteva accontentarsi di essere un ‘semplice’, quotato e affermato artista. E infatti Julian Schnabel racconta come sia riuscito a trasformare una sua passione in un’altra strabordante esperienza artistica: il cinema.  La sua esperienza da regista, infatti, ci ha regalato il famoso film su Basquiat, con David Bowie che interpreta Andy Warhol, poi gli intensi “Prima che sia notte”  e “Lo Scafandro e la Farfalla” che gli valse la Palma d’oro  a Cannes. La cosa più interessante del documentario non sono le interviste a Mary Boone o a Jeff Koons e altre persone note del sistema dell’arte. Le parole più interessanti sono quelle pronunciate dai suoi amici che svelano il carattere di un gigante buono. Il titolo originale del documentario “A private potrait” svela chiaramente gli intenti del regista che ha raccolto molti ricordi e pensieri intimi dei famigliari e degli amici di Schnabel. Tra le cose più intense che rimangono, ci sono le parole di Bono che racconta gli ultimi giorni di vita di Lou Reed, tenuto in braccio da Julian che gli fa fare un bagno in piscina. Di questa scena pare esista una foto che non vediamo.  Se c’è una cosa che resta di questo artista, quando partono i titoli di coda, è questo senso di protezione che sembra avvolgere tutti coloro che hanno a che fare con lui. Un artista che non sa mai di riuscire in quello che si prefigge, ma che alla fine inspira sicurezza. Sarà per il fatto che riesce ancora a meravigliarsi e a sorprendersi mettendosi in discussione. Con l’attitudine del surfista non teme l’imprevisto e l’ignoto “io sono un pittore. Ho fatto film per raccontare delle storie, c’è una parte della mia testa che vuole raccontare storie, i quadri sono più ermetici, non hanno bisogno di essere spiegati. Io voglio dipingere cose che mi sorprendono o che non ho ancora visto”.

 

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LA LOTTA DI LISTER

Un altro documentario da non perdere è “La lotta di Lister”, incentrato sull’artista australiano Antony Lister. Il titolo italiano sarebbe dovuto essere “Le battaglie di Lister” o “Le fatiche di Lister” perché tutto il racconto è l’insieme delle piccole e grandi battaglie affrontate dall’artista da quando ha deciso di seguire la sua inclinazione artistica fino all’anno in cui è stato chiuso il documentario. Dagli esordi, quando gli fu commissionato di dipingere le cabine dei semafori della sua cittadina, passando per la sua prima personale, grazie alla quale riuscì a raccogliere i soldi per il suo primo viaggio a New York, (nel mentre diventava per la prima volta padre), fino al primo arresto. Sembra che non passi giorno che Anthony Lister non debba affrontare uno dei suoi tanti demoni e intraprendere una fatica per restare a galla. Il rapporto con le droghe, il rapporto con la moglie e con i suoi figli sono inconciliabili con il suo essere un artista affermato, esattamente in contraddizione con gli inizi del suo percorso artistico quando il mantenere una famiglia era lo stimolo principale per produrre arte.

Tutto il racconto è affidato ai video  girati negli anni dai protagonisti del documentario e dallo stesso Lister e poi montati dal regista e così riusciamo a cogliere anche una parte preponderante del quotidiano: Lister che svuota la lavastoviglie, Lister che  guida il camper, Lister nudo con due donne, Lister che gioca con i figli, Lister con il suo avvocato mentre prepara il processo per detenzione di droga che potrebbe precludergli la carriera internazionale.  Di tutte le sue battaglie, l’unica poco convincente nel documentario è quella contro le amministrazioni pubbliche per quel che riguarda il rapporto conflittuale con  la street art. In questa parte è interessante la definizione “ballo di ipocrisia” che viene affibbiata alle pubbliche amministrazioni; se da una parte commissionano lavori e godono dei benefici economici di intere aree, che si riqualificano grazie ai muri dipinti da famosi street artist, dall’altra accusano, con alcuni cittadini, gli artisti per deturpamento di proprietà private. Anthony Lister crede davvero nel potere salvifico dell’arte “E’ una benedizione poter rendere felici le persone con il mio lavoro” afferma nel documentario, eppure sembra che di questa gioia né lui né la sua famiglia possano godere.  Proprio in questi giorni è stata rilanciata la notizia di nuove accuse verso Lister di molestie, ma l’arte in questo caso non può esercitare alcun potere. Tuttavia, come egli stesso afferma nel film, riferendosi ad un momento buio della sua esistenza “sono un romantico e penso ci sia speranza”.

 

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LA SCALA CELESTE: L’ARTE DI CAI GUO-QIANG

Un altro documentario da non perdere, firmato dal premio Oscar Kevin MacDonald, ci porta in Cina e si intitola “La scala celeste”. Il protagonista è Cai Guo-Quiang tra le menti della sfarzosa inaugurazione dei Giochi Olimpici in Cina di cui firmò lo spettacolo pirotecnico. L’arte di Cai Guo-Quinag è fatta principalmente con la polvere da sparo: al posto dei colori a olio, delle tempere, delle sfumature e dei contrasti cromatici sulla tela, egli usa i colori e i fumi che producono i fuochi d’artificio con le sovrapposizioni dei tempi e dei suoni degli spari.  Il film ricostruisce chiaramente tutti i gradini che l’artista ha dovuto scalare prima di arrivare alla retrospettiva che gli ha dedicato il Guggheniem e di raggiungere il riconoscimento mondiale.  Le immagini di repertorio, unite alle opere pensate negli ultimi anni, rivelano il potenziale esplosivo e il filo rosso che unisce il passato al presente. E svelano una immutata forza di volontà nel voler letteralmente far esplodere le storie alla ricerca dell’energia primigenia dell’arte e del fare arte. Il documentario non manca di raccontare il rapporto problematico di ogni artista con le questioni politiche cinesi e il rapporto con i burocrati che assicurano la possibilità di realizzare opere spettacolari. Il critico Ben Davis parla di “lato oscuro” dello sfarzo, che si cela dietro alcune performace e di come il senso di alcune rappresentazioni sia legato alla pura propaganda. Idealmente Cai Guo-Quian risponde a queste critiche dicendo che è ben conscio della posizione difficile in cui egli si trova ogni qualvolta mischia arte e politica e che egli vorrebbe provare a cambiare le cose dall’interno, anche se il senso di frustrazione, quando gli cambiano alcuni progetti, è molto forte.  Il titolo del documentario anticipa che la tensione narrativa principale ruota intorno all’opera-ossessione dell’artista: costruire una scala di fuochi d’artificio che colleghi la terra all’universo, dove l’arte è appunto una porta spazio-temporale che unisce le due dimensioni. Il primo tentativo del 1994 non andò a buon fine e fino all’ultimo del 2015 ce ne sono stati in tutto quattro. Questo progetto rappresenta per lui, dopo aver raggiunto il successo e la fama, un modo genuino per ritrovare le intenzioni originali del fare arte e forse un modo per costruire una scala che lo riavvicini alla sua famiglia, rimasta in Cina. Tutta la poesia è nella parte finale che racconta la continua ricerca di fare qualcosa per se stessi, andando contro tutto e tutti, senza fare calcoli.  La domanda di fondo sembra proprio essere: cosa si è disposti a fare per ritrovare l’incanto e la purezza del proprio agire artistico?

 

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STRUGGLE: LA VITA E L’ARTE DI SZUKALSKI

Prodotto da Leonardo Di Caprio, che appare bambino in una foto, il documentario racconta la biografia dello scultore di origine polacca Szukalski la cui esistenza venne ri-scoperta all’improvviso negli anni ‘70. La storia è molto americana: Glenn Bray, collezionista, trova in una libreria una stampa di un artista europeo nato il 1893, di cui possedeva già un libro, e grazie alla libraia scopre che il misterioso artista è ancora vivente e abita molto vicino alla sua casa. Il giovane collezionista coinvolge subito il suo gruppo di amici artisti, tra cui George  Di Caprio, e cominciano a frequentare Stas, il nome dello scultore, intervistandolo e registrando nel tempo  più di duecento ore di video, sulla sua vicenda personale. Nato in Polonia e emigrato a Chicago con la famiglia, torna nuovamente in Europa per frequentare un’accademia d’arte che abbandona presto per ritornare negli USA.  Qui inizia a farsi un nome e diventa, tra le altre cose, amico dello sceneggiatore Ben Hetch che lo aiuta a trovare dei lavori, tra i quali  probabilmente la collaborazione al film “King Kong”. Nel 1936 torna nuovamente in Polonia, dove viene inaugurato un museo a lui dedicato, e auspicando la nascita di un’arte nazionale, fonda un gruppo nazionalista, critico con la società multiculturale polacca dell’epoca, che pubblica la rivista KRAK dai toni aggressivi e su cui trovano spazio affermazioni antisemite.   Molte di queste cose gli amici californiani le hanno scoperte mentre stavano girando il documentario e lo stesso George Di Caprio parla di inganno e afferma che se avesse saputo queste cose negli anni ’70, sarebbe stato meglio, testualmente, “stargli alla larga”. Quando la Germania invase la Polonia, tutte le opere di Zsukalski andarono perse o furono distrutte.  Ritornato in America, senza opere e senza niente, si tuffò nello zermatismo, un progetto di riscrittura dell’intera storia dell’umanità che poneva l’isola di Pasqua come il punto di origine di tutte le culture del mondo.

Il film intervalla alle immagini di repertorio e alle interviste, le riprese di alcune sculture che i suoi amici ed estimatori hanno fatto realizzare dopo la sua morte, perché nel frattempo lo scultore polacco non aveva i mezzi per produrre le sue opere.  Nonostante ore e ore di filmati e di interviste che gli amici di Szukalski hanno raccolto nel corso degli anni e dalla sua morte, avvenuta nel 1987, ad oggi rimane la domanda: chi era davvero Szukalski? L’anziano che si commuove quando ripensa alla crudeltà della guerra o la persona capace di dire “Mi metto Rodin in una tasca e Michelangelo in un’altra” e aggiungere “L’arte non può essere moderata, l’arte deve essere esagerata”?. Come conciliare i giudizi di Ernst Fuchs che parla di ‘erotismo spirituale’ delle sue opere con i racconti del fumettista  Jim Woodring, che riferisce le parole di Szukalski capace di paragonare le opere di Picasso e Matisse a degli escrementi? Nemmeno un documentario, seppur ben scritto, con molte interviste e basato su intense ricerche, può svelare la poliedrica personalità di una persona che probabilmente non vedeva l’ora di dimenticare una parte travagliata della sua esistenza. Delle sue opere è rimasto ben poco, un colmo per uno scultore che riteneva sé stesso ‘lo scultore più noto in America’ e che “non si poteva descrivere con altra parola se non genio“  a suo dire.

 

 

 

 

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