WHAT I DO. Intervista allo street artist RUN

Getting your Trinity Audio player ready...

Run è un muralista di origini marchigiane, appartenente alla prima guardia della street art italiana. Assieme a Dem, Blu, Ericailcane e molti altri, ha contribuito a gettare le basi di un movimento che oggi appare molto diverso, a tratti irriconoscibile, rispetto alle sue origini fatte di aste, spensieratezza e socialità.

Nel 2017 è stato invitato a realizzare dei murales a Shenzhen, in Cina, in occasione della Biennale di Architettura, assieme al romano Hitnes ed al cinese Jiamin Hu. Li ha seguiti il regista e video maker Gastone Clementi, con cui Run ha poi realizzato il documentario “What I Do”, adesso disponibile gratuitamente online. Ho avuto il piacere d’intervistare Run in una lunga video-chiacchierata, durante la quale è emerso il lato più sensibile di questo uomo ed artista, che attraverso le sue figure indaga l’essere umano perché:Sento la pulsione di curiosare nell’uomo e cercare di trovare un senso a quello che faccio, a come vivo e quello che voglio.”

Una bellissima caratteristica del mondo dell’arte urbana, sta nel fatto che gli artisti viaggiano molto per realizzare le loro opere sui muri di tutto il mondo. Nel documentario ‘WHAT I DO’ parli del viaggio intrapreso nel 2017 a Shenzen, in Cina, per andare a realizzare dei murales in occasione della Biennale di Architettura. Eri già stato prima in Cina? Come ti si è presentata quest’occasione? E chi altro c’era con te?

In Cina sono stato diverse volte ma sempre e solo nella città di Shenzhen. Ogni volta per dipingere ed invitato dalle stesse persone, ovvero uno studio di architetti (Urbanus) che fa base a Shenzhen. Con loro ho stabilito un buon rapporto già dal 2010, questo mi ha portato poi a farci altri progetti negli anni a seguire. La prima volta ho dipinto le pareti del museo di arte contemporanea di Dafen (un distretto di Shenzhen), la seconda volta nelle strade del distretto di OCT (Overseas Chinese Town) e la terza volta per la biennale di architettura (UABB_2018), supervisionata dagli stessi architetti. Quest’ultima accadeva nel distretto di Nantou che è, per così dire, il centro storico della metropoli di Shenzhen. Con me quest’ultima volta c’erano altri due artisti. Uno era Hitnes, artista italiano che già era stato a Shenzhen in precedenza, l’altro era Jiamin Hu, un artista cinese che ora risiede a Lion in Francia, anche lui non nuovo alla metropoli. Per la biennale ho invitato con me un assistente e film maker, Gastone Clementi. Con lui ho fatto il film documentario, ‘What I Do’.

Oggi Shenzen è una città da 13 milioni di abitanti, ma fino a 50 anni fa era un villaggio di pescatori che contava poche migliaia di persone. Che cosa hai deciso di dipingere sui muri di Shenzen? A cosa ti sei ispirato? Inoltre, so che quando sei arrivato i muri erano diversi da come ti aspettavi. Mi racconti questo simpatico aneddoto?

Proprio perché negli ultimi 30/40 anni la Cina è diventata l’epicentro tecnologico del pianeta, ho deciso per contrasto di virare in direzione completamente opposta, ovvero focalizzare il mio pensiero nella forza lavoro dell’uomo. Quindi ho iniziato ad abbozzare un’idea di lavoratori, braccianti, muratori e contadini. Tra l’altro in questo ultimo viaggio eravamo costantemente circondati da cantieri e persone che lavoravano. Quindi ho optato per quest’idea, proprio per innalzare nel pensiero e memoria collettiva il come siamo arrivati al presente in cui viviamo. Ho seguito anche un filo antropologico che mi ha fatto pensare al nomadismo dei cacciatori di 30.000 anni fa (scusate se parto da cosi lontano). Ho voluto esprimermi sul fatto che finché siamo stati nomadi e cacciatori, non c’era ancora il presupposto per parlare di villaggio o di città. Solo quando l’uomo ha iniziato a scoprire l’agricoltura, ed è diventato sedentario, allora si è messo a pensare alle abitazioni intese come base per costruire una civiltà diversa. Tutto questo lungo discorso mi sembrava relativo e attinente anche all’architettura stessa. La cultura cinese da secoli si basa sulla forza del lavoro, la massa della popolazione che si ‘sacrifica’ per un ideale collettivo. La velocità con cui si costruiscono autostrade, ponti, grattaceli e infrastrutture è impressionante. La società è stata costruita dalle persone con le loro mani, poi sono arrivati i ‘robot’. Sembra e suona così retorico e didascalico, ma si fa bene a dipingerlo su un muro in grande, così che questa immagine e concetto si possano visualizzare. L’aneddoto è relazionato a questo rapido sviluppo. Quando, prima di partire, mi mandarono le foto dei muri da dipingere ricevetti immagini della pre-ricostruzione. Quando arrivai a Nantou i palazzi erano stati interamente ricostruiti e non combaciavano più con le foto dei vecchi edifici. Erano simili ma nuovi. Mi son dovuto adattare alla novità.

 

‘WHAT I DO’ è il documentario che racconta questa esperienza attraverso le riprese del regista Gastone Clementi. Perché questo titolo? Cos’è che fa RUN? E come nasce l’idea di realizzare il documentario?

Quello che faccio è creare delle scenografie nella vita reale, con le quali la gente convive e interagisce. Io avevo chiesto a Clementi di seguirmi in questo viaggio e portare la sua camera video. In realtà non sentivo il bisogno di creare un film, ma più che altro di documentare quello che facevo. Tante volte mi sono trovato a dipingere dei posti e non avevo modo di catturare quello che mi stava intorno, se non che la foto finale del dipinto. Questa volta volevo avere immagini e suoni, magari delle interviste con il sottofondo dei rumori e linguaggio del luogo. Mi piaceva portarmi via delle situazioni in video, così che le avessi potute archiviare e riguardare in futuro. L’idea di mettere tutto questo materiale insieme è stata una decisione quasi sofferta, nel senso che non sapevamo che farci all’inizio. Però era chiaro che un documentario di questo genere era una nuova opportunità per moltiplicare il lavoro già fatto e dargli un’altra forma. In qualche modo clonare l’impegno che c’era stato e creare un progetto parallelo: il film. Il titolo è nato per caso. Cercavamo un nome che fosse ‘simpatico’, facile da dire e ricordare, comprensibile anche se in inglese e poi senza troppi giri di parole. Come quello che riprendevamo in camera. Quando cerco un nome o un titolo mi sforzo e ci perdo del tempo, ma poi questo arriva da solo per i motivi più semplici. Il titolo di un progetto arriva dopo il processo di ragionamento. A volte penso che un titolo sia metà dell’opera a cui si è lavorato. Il nome a volte è tutto.

Parlando della tua ricerca artistica mi hai detto una cosa molto bella: “Quando diciamo che siamo da soli è perché non ci sono altri esseri umani, ma magari siamo in mezzo alla natura.” Al centro di tutto ciò che crei c’è sempre la figura dell’UOMO, è una cosa ricorrente nei tuoi disegni, nei titoli delle tue mostre e pure del tuo libro “Time traveller artist man”. Cos’è che ti incuriosisce così tanto nell’essere umano?

I miei disegni sono al 90% di uomini, tra l’altro mi resta molto difficile disegnare figure femminili e mi vengono quasi sempre alquanto grottesche. Ma la parola uomo non significa ‘maschio’, ma ‘essere’. Io faccio parte di questa razza, tra tutti gli animali in cui potevo nascere. Forse l’uomo mi interessa e mi sento di conoscerlo, o perlomeno posso investigarlo da vicino perché mi basta guardarmi. Sento la pulsione di curiosare nell’uomo e cercare di trovare un senso a quello che faccio, a come vivo e quello che voglio. Io e i miei simili alla fine vogliamo la stessa cosa e abbiamo gli stessi bisogni, da sempre. Mi interessa descrivere il senso che ha la nostra passeggiata su questa terra, nel tempo che abbiamo a disposizione, qui ed ora.

Il documentario avrà un finale inaspettato che neanche voi vi sareste mai immaginati. Mi riferisco alla censura del murales e all’arresto di Jiamin, artista Cinese invitato come voi a partecipare alla Biennale di Architettura. Mi parli di questo avvenimento e dei riscontri che poi ha avuto?

Jiamin non è partito con l’intento di fare una cosa totalmente ‘rivoluzionaria’, ma le idee vengono dipingendo e lui, ad un certo punto, ha pensato che una sedia dipinta nel suo murales avesse acquistato più importanza, se fosse stata la sedia di Liu Xiaobo (Intellettuale e attivista Cinese che morto in carcere dopo essere stato nominato Nobel per la pace nel 2010). Il simbolo della sedia blu è un diretto riferimento a tutta una serie di problemi sulla libertà di espressione, che in Cina non c’è. Il pensiero di Jiamin Hu è stato coraggioso e la rappresentazione molto sottile. Ma l’ingenuità è stata quella di parlarne con un uomo, probabilmente mandato dal governo per spiare quello che un artista stava facendo in strada. Io credo che in Cina fare questo sia pericoloso e infatti si è visto. Ma credo anche che la libertà di pensiero e di espressione dovrebbe essere incondizionata. Anche il fatto che Jiamin Hu si sia fidato di uno sconosciuto non è cosa da condannare. Bisogna fidarsi della gente, bisogna parlare al pubblico e dire le proprie idee altrimenti viviamo in una dittatura … ed infatti. Tra l’altro Jiamin è stato coraggioso anche dopo l’arresto, nel voler parlare dell’accaduto. Ne ha parlato ai giornali e si è reso disponibile a fare l’intervista per il nostro film. Io al momento dell’arresto ero già lontano e non ho né assistito, né in qualche modo ho potuto testimoniare a sua difesa. Per fortuna ora lui è libero e credo anche più motivato e più forte nel proseguire il suo lavoro.

Tu hai fatto parte della prima guardia di ‘street artist’ italiani, nel senso più stretto del termine. Quando hai iniziato e cosa ti ha spinto a farlo? Con chi dipingevi all’inizio e come ti è venuto di mettere un pennello sopra all’asta?

Alla fine degli ani ‘90 e degli anni a seguire, conoscevo questi artisti in Italia: Dem, Blu ed Ericailcane. Già a quel tempo dipingevo con le bombolette e mi piacevano i graffiti e tutta quella cultura. Il pennello sopra l’asta l’ho visto fare per la prima volta a Blu e l’ho seguito. Ho sempre avuto bisogno di arrampicarmi o di usare una scala, devo dire. Io attribuisco il mio stile di pittura murale anche alla nostra morfologia architettonica e alla decadenza economica avvenuta in quegli anni. L’intonaco delle nostre architetture, le forme di pareti e finestre che caratterizzano le abitazioni italiane post moderne. Le fabbriche abbandonate, che ci ha lasciato la depressione economica degli anni ’80, sono state le canvas dell’inizio della mia carriera e di quella dei miei coetanei. Il fatto che in Italia c’è tanto sole e gli intonaci sono lisci e bianchi, anche se rovinati, sono sfondi bellissimi. L’asta e i rulli mi permettevano di disegnare grossi personaggi e la vernice talvolta si trovava in cantina, o abbandonata per strada. Era una sopravvivenza ma per me è stato anche andare contro un brand, ovvero quello delle tag e delle bombolette. Non mi è mai piaciuto troppo lo spray. È troppo sofisticato e poi quando uno spray era finito non potevi far altro che gettarlo. C’era troppa competizione nei graffiti e non mi interessava. Soprattutto ripetere il mio nome, il quale non mi è mai nemmeno necessariamente piaciuto fino in fondo e totalmente.

Mi parli del tuo periodo fiorentino?

Quando gli artisti dipingevano a Bologna, Milano ed altre città, io ero fisso a Firenze dove c’era un’importante scena fatta di centri sociali. È in questi luoghi che la produzione artistica secondo me era forte e diversificata. Il fervore dell’illegalità, occupare un posto vuoto dove prima la gente ci lavorava dentro ed ora era preso d’assalto per istallare laboratori, con tutte le mura dipinte e disegnate. Questo era eccitante ed era libero, senza una scuola o un’accademia a definirlo.

Confrontandoci mi hai giustamente detto che, dal tuo punto di vista, muralismo e graffiti hanno forti difficoltà a coesistere nello stesso ecosistema. Perché? 

Forse per come si sono sviluppate le cose. Quando c’è un murales si tende un po’ di più a consacrarlo come una cosa ‘importante‘ e parte della comunità. Perché magari questo murales parla di qualcosa inerente al luogo dov’è fatto(?) o perché coinvolge gente e fatti interessanti di quello stesso posto(?). I graffiti sono un’arte che appartiene ad una cultura ben precisa. Sono chiaramente apprezzabili da tutti, ma decifrabili da pochi. Non saprei, non esiste una sola verità, quindi mi questiono da solo. Perché il fatto di compiere la stessa azione, cioè dipingere un muro, ma fatto con un intento diverso fa sì che le due cose differiscano? Non so, ma le due cose sono diverse e vivono nello stesso luogo. In differenti circostanze questo non sarebbe possibile.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Artuu consiglia

Iscriviti alla Artuu Newsletter

Il Meglio di Artuu

Ti potrebbero interessare

Seguici su Instagram ogni giorno