Double Why, la street artist che sovverte le pubblicità per combattere il consumismo

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C’è un ramo della street art che non interviene sui muri, ma affronta e sovverte l’industria pubblicitaria per eliminare l’inquinamento visivo da essa prodotto. Ne abbiamo parlato con la street artist Double Why.

Si tratta di quella street art che si serve degli spazi pubblici esterni, sui cartelloni pubblicitari, adoperandoli come tele per comunicare messaggi contro il consumismo. Ne avevamo già accennato nel nostro articolo sulla Poster Art. Approfondiamo ora l’argomento con Double Why, street artist, donna, esponente del movimento di subvertising nonché parte con Hogre e Illustre Feccia del threesome show “DILDO”, progetto espositivo riuscitissimo tenutosi alla Street Levels Gallery di Firenze, terminato l’8 marzo.

Konsumpcjonizm, by Bess Komentarza e Doublewhy, Varsavia

Cosa si intende per subvertising?

Subvertising è una parola inglese formata dalla crasi di Subvert e Advertising, quindi sovvertimento della pubblicità. È da quando esiste la pubblicità che si è sentita l’urgenza di intervenire su di essa. I metodi di intervento possono essere i più svariati: vandalizzare, rimuovere, occupare, modificare e anche reinventare queste immagini, appropriarsene e renderle altro.

Perché prendersela con la pubblicità? Perché questo accanimento? Molti pensano che il danno provocato da essa risieda nel condizionamento psicologico diretto all’acquisto di un prodotto, per cui non acquistando un prodotto che abbiamo visto pubblicizzato possiamo ritenerci immuni dal suo effetto. Il condizionamento però va ben oltre l’acquisto o meno: si estende al modo di vedere i nostri corpi, di costruire le nostre relazioni, di cercare la nostra felicità, fino al modo di concepire il mondo, che è sempre inquadrato in un unico sistema possibile, quello capitalista. Essendo un sistema che basa il suo funzionamento sull’iniquità, la sua propaganda non fa altro che distrarci dall’ingiustizia che viviamo quotidianamente per farci concentrare sull’ultimo feticcio che ci renderà finalmenty felicy (autocitazione). È talmente tanta che non la vediamo più, ma come ci insegnano i test psicologici sui messaggi subliminali, il nostro cervello immagazzina molto di più di quello che crediamo. Le nostre teste sono piene di spazzatura, di sogni che non ci appartengono e che servono ad arricchire l’1% della popolazione del mondo.

Il subvertising è innanzitutto un gesto liberatorio. Agendo su quel linguaggio che ci viene imposto ci liberiamo dell’effetto di quel messaggio su di noi. Se il linguaggio della propaganda si può sovvertire e riscrivere, allora anche lo stesso sistema che lo genera può essere cambiato; la realtà non è data e immutabile bensì fluida e riscrivibile.

Foto by Valentino Bonacquisti

Da dove sei partita e come hai sviluppato un tuo percorso artistico personale all’interno di questo ambito?

Ho sempre disegnato. Durante l’adolescenza, oltre ad autoprodurre i miei fumetti nella copisteria sotto casa, passavo il tempo tagliando stencil sui banchi di scuola con una mia amica, attività che rendeva la vita liceale molto più entusiasmante. Li spruzzavamo nei bagni, nelle strade del quartiere, per gioco. È stata una breve parentesi. Dopo la scuola ho cercato di trasformare la mia passione per il disegno e l’animazione in un mestiere, e dopo enormi difficoltà, migrazioni, ritorni, sono riuscita nell’intento. Da anni lavoro come animatrice e illustratrice, e ciò mi ha portato a conoscere nuovi meccanismi subdoli di oppressione che portano dall’auto-castrazione creativa fino all’annientamento totale della passione per questo lavoro.

Quando la mia amica Bess Komentarza, a Varsavia, mi ha introdotto alla pratica del subvertising, mostrandomi come una semplicissima chiave poteva aprire quello che prima sembrava un moloch inespugnabile, è stato naturale usare le tecniche acquisite in anni di lavoro per criticare il sistema che aveva quasi annientato la mia voglia di creare. La prima pubblicità che ho sovvertito, con Bess, rappresentava una donna sdraiata in un fluido bianco. Sulla destra c’era uno shampoo contornato da uno schizzo bianco. Abbiamo rapito il poster e, dopo averlo lavorato con gli acrilici, l’abbiamo restituito alla strada. Il nuovo slogan diceva: “Il consumismo ti viene nei capelli”.

A Londra ho conosciuto molti altri subvertiser, come il collettivo Special Patrol Group, Hogre e Illustre Feccia, con i quali ci divertiamo a organizzare azioni e workshop in giro per l’Europa.

Nevrastenia, Roma, design di Hogre e Doublewhy

Quali sono i rischi che si corrono operando su spazi commerciali e non su muri cittadini?

Si può passare del tutto inosservati con il giusto travestimento! Con le giacchette gialle catarifrangenti veniamo scambiati per  lavoratori della manutenzione. Siamo praticamente invisibili.

Per quanto riguarda l’apertura delle cabinette alle pensiline dell’autobus è sufficiente una semplice chiave, che cambia da città in città, ma che spesso si può addirittura acquistare dal ferramenta. Dunque non c’è scasso, non c’è danno alla proprietà. Se abbiamo passato dei guai è stato più per i contenuti dei poster che non per l’azione in sé. Questo è uno dei motivi per i quali trovo più interessante agire sulle pubblicità piuttosto che sui muri. Scrivere sui muri è sempre bellissimo, ma certe immagini posso essere ben più scioccanti e inaspettate se messe sottovetro, in un luogo destinato allo scopo commerciale, che su un muro.

L’essere donna come e quanto influenza il tuo lavoro?

Non penso a me stessa come “donna” ma piuttosto come a una “persona”. Il fatto stesso che mi poni questa domanda, che non avresti mai posto a una persona che viene identificata col genere maschile, è indicativo di una situazione di disparità creata dall’imposizione stessa dei ruoli di genere. Capisco le buone intenzioni di creare una riflessione sul genere, ma appiattendo la discussione si rischia di rinforzare la visione binaria dei generi e l’idea che la disparità sia un problema che riguarda unicamente il soggetto più discriminato, cioè le donne, o le persone che si identificano come tali, mentre in realtà si tratta di costrutti sociali che riguardano e danneggiano tutte/i. Se mi occupo di rappresentazione del corpo femminile non è perché sono donna, è perché reputo importante parlare di questa tematica.

Trilogia dei Corpi, Roma, design di Illustre Feccia, Hogre e Doublewhy

Lavori sia in Italia che all’estero: vi sono differenze socio-culturali significative nei diversi contesti in cui operi e come è percepito il tuo lavoro da parte del pubblico italiano ed estero?

A Londra questo tipo di azioni è molto più frequente poiché ci sono diversi collettivi che si occupano di subvertising, ed è uno strumento usato anche da diversi gruppi per propagare dei messaggi politici.

In Italia c’è stato un minor numero di interventi, dunque c’è ancora l’effetto sorpresa su cui si può giocare molto. Ad esempio, nell’estate del 2017 io e Hogre abbiamo installato dei manifesti raffiguranti una coppia di madonne lesbiche e un Gesù pedofilo, e un consigliere capitolino di Fratelli d’Italia ha accusato la società dei trasporti, pensando che l’affissione fosse autorizzata.

6) Qual è l’intervento di cui sei più fiera o emotivamente coinvolta?

Mi colpiscono particolarmente i corpi nelle pubblicità. Non è la nudità il problema,  ma l’artificialità di questa rappresentazione: siamo diventati incapaci di sostenere la visione della realtà e delle sue rughe. C’è un pullulare di foto di modelle/i  manipolati con photoshop, che non fanno altro che alimentare le insicurezze e le aspettative irrealistiche delle persone sui propri corpi e su quelli altrui.

In particolare c’è stato un periodo in cui vedevo ovunque, in  dimensioni colossali, un manifesto che pubblicizzava lingerie femminile. Rappresentava una donna con un seno di una sfericità inverosimile, una pelle sintetica e una magrezza che non lasciava però trasparire costole o zigomi appuntiti, come fosse stata priva di struttura ossea.

Quello che mi colpiva non era tanto l’esibizione del corpo photoshoppato, quanto il suo sguardo vacuo, privo di qualunque emozione. Mi sembrava in tutto simile a quello di una bambola, perfetta sì, ma priva di identità o capacità di agire. Io e Hogre, con il nostro intervento, abbiamo evidenziato in modo grottesco questi aspetti, per criticare la rappresentazione passiva del corpo femminile.

Fintissimi, Hogre e Doublewhy. Torino

Spiegaci il tuo progetto per la prossima mostra alla Street Levels Gallery

La mostra si chiama “Dildo” ed è una collettiva con Hogre e Illustre Feccia. Si tratta di un’esplorazione dell’aspetto osceno del consumismo: la logica del porno, che è in contrapposizione con l’erotico, pone l’altro come oggetto, da usare e consumare. In questo atto di consumo l’io si disintegra, si annulla nell’oggetto feticcio. In questa mostra cerco di fare l’opposto, di riprendere la distanza dall’oggetto brandizzato agendo su di esso, manipolandolo, mettendoci sopra il mio io. (La mostra è terminata l’8 di marzo)

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