Il metodo Leo Castelli: l’arte di vendere l’arte

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Il metodo Leo Castelli: l’arte di vendere l’arte

Leo Castelli, si sa, è una leggenda nel mondo dell’arte. Il gallerista, al di là del suo legame con Jasper Johns e Rauschenberg (oltre a Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Donald Judd e molti altri), ha plasmato una vera e propria pratica di vendere l’arte, un metodo che conserva ancora oggi la sua attualità. Castelli, infatti, è stato il primo a riunire un gruppo di artisti nuovi e a commercializzarli come marchi, stabilendo il concetto moderno di “rappresentazione di un artista” da parte di una galleria. Fu il primo, inoltre, a collaborare con dealers negli Usa e in Europa, mirando ad una classe di collezionisti sempre più globale e interessata agli artisti americani del dopoguerra. Negli ultimi anni della sua vita, infine, ha collaborato e istruito una giovane generazione di mercanti d’arte, facendo sì che la sua influenza si trasmettesse per i decenni a venire.

Leo Castelli | via www.gettyimages.com

Italiano di origine e americano di adozione

L’occhio di Castelli era ben noto, così come la sua instancabile gentilezza, disinvoltura e la sua capacità di incantare i collezionisti. Aveva origini italiane, nacque a Trieste e si formò a Milano; lavorò in una compagnia assicurativa a Bucarest nel 1932, dove incontrò e sposò una donna di nome Ileana Schapira, con la quale si trasferì a Parigi nel 1935.

Il padre di Ileana era abbastanza ricco da sostenere la prima avventura artistica di Castelli, una galleria a Place Vendôme dedicata ai mobili e alle decorazioni moderne. Tuttavia, la galleria passò rapidamente dalla vendita di ottomani a opere di artisti surrealisti come Salvador Dalì e Max Ernst.

Dopo che Castelli e sua moglie chiudevano la galleria parigina nell’estate del 1939, scoppiò la seconda guerra mondiale, costringendo la coppia alla fuga. Dopo varie peripezie i due approdarono a New York – era il 1941. In seguito a un periodo di servizio militare, Castelli divenne un punto di riferimento per le avanguardie newyorkesi, organizzando feste nel suo appartamento, regalando disegni di Dalí al Museum of Modern Art nel 1946 e stringendo amicizia con curatori e artisti tra cui Willem de Kooning.

Leo aprì la sua galleria a New York, alla 4 East 77th Street nell’Upper East Side, nel 1957, quando aveva già 50 anni. La sua galleria si rivelò rivoluzionaria per quanto riguarda la scelta del roster di artisti rappresentati e esposti. Castelli, infatti, è noto per essere stato il primo ad abbandonare la linea dell’espressionismo astratto per puntare ad una nuova generazione di artisti, tra i quali figurano appunto Johns e  Rauschenberg.

Leo Castelli e Salvador Dalì | via www.johanandlevi.com

Un nuovo modello per la rappresentazione della galleria

Nonostante i clamori iniziali, la scommessa di esporre i controversi Johns e Rauschenberg ha poi dato i suoi frutti. Come Calvin Tomkins ha scritto nel 1980: “La prima mostra personale di Jasper Johns da Castelli, nel gennaio del 1958, ha colpito il mondo dell’arte come una meteora.”

Rauschenberg fu esposto subito dopo e, nei pochi anni che seguirono, Castelli fece la corte a Lichtenstein, Warhol e Judd, così come a Frank Stella, Dan Flavin, Bruce Nauman e molti altri.

Al fine di mantenere questi geni dell’arte, Castelli ha escogitato un nuovo modello di relazione tra artista e gallerista definito, per l’appunto, “Modello Leo Castelli”. Sotto il vecchio sistema, le gallerie si limitavano a vendere le opere e dividevano il profitto con l’artista in percentuali, creando così una rapporto che non presupponeva una fedeltà permanente da parte dell’artista. Nel modello di Leo Castelli, invece, la galleria e l’artista avevano un legame che li univa professionalmente e intimamente a lungo termine. La galleria forniva, infatti, i soldi necessari all’artista per mantenere uno studio, per provvedere alle forniture artistiche, e monitorava il suo mercato per assicurarsi che i prezzi  delle opere risultassero coerenti. La galleria, inoltre, curava il brand dell’artista, gestendo i rapporti con la stampa e le pubbliche relazioni. Una pratica di Castelli che, però, non è stata adottata da molti dei suoi seguaci, è stata la sua insistenza a dare a ogni artista uno stipendio mensile, indipendentemente dal fatto che il loro lavoro fosse richiesto sul mercato.

Alla base del modello c’era, dunque, una fiducia reciproca e un profondo senso di lealtà, principi fondamentali per stabilire quella che si presumeva essere una relazione a lungo termine, con gli inevitabili alti e bassi che avrebbero potuto interessare la carriera di un artista e i cicli dell’economia.

 

Sfruttare un’ampia classe di collezionisti tra gli Stati Uniti e l’Europa

Negli anni ’60 c’era un grande interesse per gli artisti americani tra i collezionisti europei. Questo mood fu sfruttato dal nostro Castelli che, ad esempio, ebbe come cliente fisso un certo Peter Ludwig, lo stesso che fondò quel Museo Ludwig di fama mondiale a Colonia per ospitare la sua collezione.

Il popolo americano, d’altra parte, aveva probabilmente bisogno di più tempo per capire l’importanza della recente arte americana che invece impazzava tra i collezionisti e nelle gallerie europee.

Oltre ai collezionisti, Castelli è stato tra i primi a collaborare con gallerie affermate in tutta Europa, le quali facevano a gara per ospitare mostre dei suoi artisti  – tra queste ricordiamo Konrad Fischer a Dusseldorf e Gian Enzo Sperone a Torino.

Castelli ha, inoltre, collaborato con gallerie in diverse città degli Stati Uniti, vendendo le opere degli artisti ad un prezzo ridotto e sacrificando parte della propria quota di profitto a favore di una più ampia rete di distribuzione. Tra le gallerie interessate c’erano Virginia Dwan a Los Angeles, John Berggruen a San Francisco e Janie C. Lee a Houston. Se inizialmente questa strategia apparve suicida, presto la scelta fu ampiamente ripagata

Leo Castelli Gallery in Soho (NY) | via www.artspace.com

Cementare un’eredità

Nell’aprile del 1977 Castelli aveva 70 anni e non assumeva un nuovo artista da sei anni, quando una nuova galleria aprì al 420 West Broadway. Si trattava della galleria di Mrs Mary Boone.

Dopo due anni di vicinanza, finalmente Castelli si avventurò alla Mary Boone Gallery, visitando la prima mostra personale di un artista di nome Julian Schnabel. Ne rimase talmente folgorato che nel 1981 divenne co-rappresentante di Schnabel con Boone, dividendo la quota del rivenditore 50-50.

Il mentoring di Castelli alla Boone gli ha permesso di plasmare una nuova generazione di galleristi sulla gestione di una galleria e la vendita di arte, e la sua influenza è valida ancora oggi. Un altro suo adepto fu Jeffrey Deitch e anche il famosissimo Larry Gagosian, all’inizio della sua carriera, beneficiò degli insegnamenti di Leo Castelli. Castelli consigliò Larry sugli artisti da esibire nelle sue gallerie di Los Angeles nei primi anni ’80 e lo mise in contatto con i collezionisti americani più importanti, il ​​cui supporto ha dato il via a quella che sarebbe diventata una catena di 16 gallerie in tutto il mondo.

 

Fonte: Artsy.net

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